
Al cuore del messaggio sovversivo di Gesù
Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 27/09/2025
Qui l'introduzione a questo testo.
DALL’ANTICO GIUBILEO AL VANGELO
È per dare finalmente una risposta chiara e convincente alla domanda che abbiamo appena formulato (cos’è il regno di Dio annunciato dal carpentiere blasfemo e sovversivo di Nazareth?) che abbiamo percorso il lungo itinerario che risalendo indietro nel tempo ci ha consentito di delineare un quadro preciso del contesto storico, politico e culturale in cui questo annuncio prende corpo, all’inizio del I secolo, nella Galilea di Erode Antipa, re fantoccio sotto tutela romana.
Quella da noi condotta fin qui è stata un’indagine che, per mancanza di altre testimonianze che non siano quelle dei testi evangelici, ha provato a leggere fra le righe di questi brevi racconti per riconoscervi indizi di una realtà ben più complessa di quella che comunemente viene presentata come una vicenda solo religiosa e che merita invece di essere ricostruita e interpretata collocando l’uomo di Nazareth nel contesto preciso in cui è vissuto e ha operato. Ed è a Nazareth che dobbiamo tornare per farci spiegare da Gesù stesso, con le parole che gli vengono attribuite dagli evangelisti, la sostanza di questa “buona notizia” con cui si presenta agli sbalorditi compaesani. (…)
Gesù infrange la legge del sabato
Questa volta ad accompagnarci a Nazareth è l’evangelista Marco che non fa mistero delle altre imperdonabili colpe del carpentiere guaritore che osa mettersi al posto dell’Altissimo. Mentre si prepara a salire al villaggio natale eccolo seminare di nuovo scandalo quando infrange il più sacro e identitario divieto della comunità ebraica: quello che con il riposo obbligatorio e totale del sabato sancisce la più riconoscibile delle diversità fra il popolo di Israele e tutte le altre nazioni. (…).
Gli uomini della banda gesuana hanno spostato ancora più in là l’eccesso di confidenza con la Legge, e dunque con Jahvè, inaugurato dall’operaio di Nazareth quando si è permesso di guarire in Suo nome. Ora non è più solo lui a praticare un comportamento blasfemo: ha contagiato anche i suoi seguaci più stretti che osano anch’essi l’inosabile. E nonostante questo (o forse proprio a causa di questo), per quanto tenuto sotto tiro da Scribi e Farisei che già “vogliono farlo morire”, le folle che corrono ad ascoltarlo e a chiedergli prodigiose guarigioni si infittiscono continuamente. La sua fama scavalca così i confini della Galilea. (…). Ed è a causa di queste voci che corrono sul suo conto che le autorità di Roma – per dirla con parole odierne – aprono un dossier sul comportamento di Gesù, cominciando a raccogliere informazioni su questo pericoloso agitatore politico. (…).
L’anno di grazia, parole di grazia
Fin qui abbiamo saputo dai vangeli che la prima predicazione di Gesù consiste nell’annuncio dell’imminente venuta del regno di Dio, i cui segni anticipatori sono, nelle sue intenzioni, le tante guarigioni da lui operate in nome e con l’autorità di Jahvè l’Altissimo. Ma è qui, nella sinagoga di Nazareth, che l’immagine di questo Regno prende corpo e sostanza. È qui che finalmente possiamo capire di che cosa realmente si tratta.
Gesù annuncia che è giunto finalmente l’anno di grazia e subito i suoi compaesani, meravigliati della grandiosa novità di questa rivelazione, sentono il bisogno di confermarsi l’un l’altro che le sue sono davvero parole di grazia. E noi aggiungiamo che di grazia non abbiamo mai sentito alcuna traccia nelle severe e aspre parole del Battista: davvero nell’annuncio di Gesù si affaccia qualcosa di radicalmente nuovo. Ma attenzione: la grazia qui annunciata non ha nulla a che fare con quella che nella dottrina ecclesiastica diventerà la purificazione dell’anima e il risanamento della vita spirituale del credente. A Gesù e ai suoi interlocutori Ebrei, come abbiamo già visto, è totalmente estraneo il concetto greco di “anima”. Gli evangelisti usano questa parola greca per tradurre quello che nella lingua aramaica corrisponde al concetto di “vita” concreta, reale, corporale. Per gli Israeliti, e dunque anche per Gesù, è infatti inimmaginabile uno sdoppiamento della persona nelle due entità di anima e di corpo: per loro esiste solo la totalità della persona che si manifesta nella sua concreta esistenza quotidiana.
Se non ha a che fare con la volatile e impalpabile anima greca e con la sua successiva metamorfosi nell’anima spirituale altrettanto inafferrabile della dottrina cristiana elaborata qualche secolo dopo dai teologi/filosofi greci, che cos’è dunque questa grazia di cui Gesù parla nella piccola sinagoga del suo paese? Nel greco del vangelo di Luca kharis significa letteralmente “dono meraviglioso e straordinario”. Ma da dove arriva nel suo vocabolario evangelico, questa parola? Quale realtà prefigura e quali aspettative reali suscita? La risposta a queste domande non è difficile perché Gesù dice chiaramente quali sono i doni portati dall’anno di grazia: in greco, nelle parole di Luca, essi vengono descritti come (…) «il periodo di riposo benefico del Signore». E allo scopo di essere chiaramente compreso Gesù spiega di essere stato mandato ad annunciare «ai poveri una buona e felice notizia: ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, agli oppressi la libertà».
Come appare chiaramente, tutto questo non ha nulla a che vedere con la cancellazione del peccato originale e di tutte le colpe che possono gravare su ogni singola coscienza; niente che possa farci immaginare un invisibile detersivo che smacchia le anime e un gaudio spirituale che pervade misticamente la persona risanata. L’anno di grazia porta invece frutti concreti, tangibili, che riguardano e riscattano la condizione di vita dei poveri, dei prigionieri, dei malati e degli oppressi che subiscono sistematica ingiuria. Come siamo lontani, ancora oggi, dopo secoli e secoli di predicazione spiritualizzante che ha magnificato il destino di felicità di anime disincarnate svolazzanti nei cieli fra le schiere degli angeli e dei santi (come si vede in una miriade di affreschi dipinti sulle cupole delle chiese) dal cogliere l’autentico significato e il valore eversivo della grazia annunciata ed elargita dall’uomo di Nazareth! Nella sinagoga di Nazareth Gesù ci afferra mentre stiamo per spiccare il cielo verso l’empireo del paradiso e obbliga il nostro sguardo rapito dalle nuvole che ospitano angeli, santi e beati a guardare in faccia la realtà della vita concreta e reale delle persone, ci fa rimettere i piedi in terra, ci trascina giù, dentro la vita di tutti i giorni.
Ma dove abbiamo già letto nelle Scritture del «periodo di riposo benefico voluto dal Signore» di cui parla Gesù, dell’anno di grazia che riconduce alla libertà chi l’ha perduta? Per trovarle dobbiamo tornare al terzo libro del Pentateuco, il Levitico, dove in 25,8-13 si prescrive la celebrazione del Giubileo: un anno di festa straordinario ed eccezionale da celebrare ogni cinquanta anni, il cui nome ebraico deriva da quello dello strumento musicale utilizzato per segnalarne solennemente l’inizio: lo jobel, il corno di montone. Ogni mezzo secolo, cioè dopo sette settimane di anni, questo è l’anno speciale che rinnova il mondo e ristabilisce la vera giustizia voluta fin dal principio dal Signore. Il Giubileo precipita con tutta la sua forza creativa sulle storture e sul disordine sociale per portare un nuovo inizio, ristabilendo negli Israeliti non tanto il corretto, vero e santo rapporto con Jahvè quanto quello che deve intercorrere tra le persone nella loro concreta vita di tutti i giorni. E in che cosa consiste questo rapporto giusto e santo fra le persone voluto da Jahvè? Esso non consta di riti, preghiere, cerimonie liturgiche, ma nella concretissima (e scomoda per molti!) cancellazione dei debiti, nella restituzione dei terreni espropriati dai creditori e in un riposo eccezionale della terra sottoposta a quarantanove anni di laboriosa fatica produttiva. «Dichiarerete santo il 50.mo anno e proclamerete la liberazione nel Paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi il Giubileo: e ognuno di voi potrà tornare nella sua casa, nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lev 25,10).
Il “nuovo inizio” del Giubileo
Si tratta certamente di un evento religioso, ma che proprio per questo, nella società ebraica, si materializza in forme economiche e sociali, e dunque politiche, assolutamente concrete e tangibili. Non è questione di anime da sbiancare – come troppo spesso si equivoca ancora oggi nella ricorrenza dei nuovi giubilei convocati dai papi in Vaticano – ma di corpi da guarire, di persone da liberare, di dignità da rispettare.
Fra tutti gli effetti che il Giubileo determina, il più eclatante è l’eliminazione della schiavitù per debiti, che ripristina l’originaria libertà dei singoli e delle loro famiglie che non possono e non devono permanere in perpetuo in una condizione servile. Si tratta di un nuovo inizio individuale e al tempo stesso sociale grazie al quale schiavi e prigionieri vengono liberati e anche la terra, sottoposta per quarantanove anni alla servitù della produzione agricola, ha diritto finalmente a un anno di riposo.
Le porte sante che vengono aperte in occasione del Giubileo non sono quelle del Tempio (e neppure quelle della basilica di San Pietro), ma le porte della libertà che ristabilisce l’uguaglianza e la parità di diritti fra gli uomini voluta fin dall’inizio dei tempi da Jahvé. Lo jobel, la tromba santa, emettendo il suo squillo poderoso che rimbomba su tutto Israele, riconduce tutti i membri del popolo di Jahvè a una posizione di identica dignità. Conseguentemente la celebrazione ogni mezzo secolo del Giubileo letteralmente “sovverte” i rapporti di forza (e di servitù) consolidati nei decenni precedenti (la durata di due generazioni), riattivando una mobilità sociale che rimescola il tessuto sociale di Israele e rimette positivamente in gioco i destini di tutte le famiglie. (…).
Ma c’è anche un altro aspetto strettamente economico che il Giubileo ebraico produce in terra di Israele: una periodica rivoluzione nella distribuzione della proprietà fondiaria, perché i creditori che si sono rivalsi sui loro debitori assumendo la proprietà dei loro fondi adesso li devono restituire: e così i latifondi costituiti nel giro di alcune decine di anni tornavano a spezzettarsi riconsegnando ai piccoli proprietari espropriati quelle terre che sono stati costretti a lavorare per lunghi anni come braccianti a giornata a tutto beneficio dei loro creditori. Per dirlo con una sola parola, il giubileo è il giorno del riscatto (gratuito!) dei poveri ridotti in schiavitù: e questo può e deve ciclicamente essere riaffermato perché la terra è proprietà di Jahvè e agli uomini essa viene data soltanto in prestito temporaneo. E proprio questo è il motivo per il quale le norme del Giubileo proibiscono la vendita di appezzamenti di terra a tempo indeterminato: essa può solo essere affittata e mai per più di cinquant’anni, con un beneficio economico per il temporaneo proprietario che si riduce a mano a mano che si avvicina l’anno giubilare.
Inutile dire che con il tempo, cioè con il succedersi delle occupazioni straniere e degli sconvolgimenti economici che hanno moltiplicato i latifondi, queste norme sono andate progressivamente in disuso. Ma proprio alla potenza risanatrice dei rapporti sociali ed economici voluta dal Giubileo Gesù si ricollega, nella sinagoga di Nazareth, per proclamare l’anno di grazia del Signore. Quando ormai la sacra e santa prescrizione del Levitico è diventata solo un ricordo e la nuova prassi del dominio ha reso stabili e inviolabili le proprietà dei ricchi e definitiva la schiavitù, ecco che Gesù il sovversivo annuncia il nuovo inizio, la “cosa nuova” che deve rallegrare i poveri e gli schiavi.
L’anno sabbatico
Ma non era solo il Giubileo a restituire dignità ai figli di Israele. Il codice di leggi contenuto nel Libro del Deuteronomio (da collocare alla fine del VII secolo) era ancora più generoso perché, senza dover attendere il cinquantesimo anno del Giubileo, stabiliva che gli schiavi ebrei tornassero liberi dopo sette anni di servizio presso i loro padroni. Risale esattamente a questa norma il concetto tuttora vigente di “anno sabbatico”, come anno di liberazione dagli obblighi di lavoro servile. E anche il Libro di Ezechiele del V secolo a.C. aveva ribadito la regola dell’anno di libertà, durante il quale la terra doveva essere restituita al proprietario originale o ai suoi eredi.
Se ora facciamo precipitare l’annuncio di Gesù del nuovo Giubileo dentro il quadro delle relazioni sociali ed economiche che imperversano in Galilea all’inizio del I secolo possiamo cogliere in pieno l’effetto destabilizzante di questa che è davvero una “buona notizia” per molti, dal momento che non promette paradisi ultraterreni ma una gioiosa liberazione su questa terra. E anche se in realtà si tratta soltanto di rimettere in vigore un’antica legge di Israele, la novità scandalosa e dirompente consiste nella radicalità con cui Gesù intende ripristinarla in un contesto così cambiato rispetto ai mitici tempi dell’antico Israele, quando il popolo di Jahvé, ancora padrone del proprio destino, non era sottoposto a occupazione straniera.
Gesù insomma non inventa nulla di nuovo: potremmo perfino definirlo un restauratore – utopico e visionario – della sostanza eversiva dell’antico Giubileo del quale secoli di occupazioni militari straniere hanno cancellato il ricordo: la restaurazione dell’antica legge che ripristina giustizia e libertà è resa ancor più dirompente dal fatto che Gesù è assolutamente convinto – come il profeta Daniele, come le narrazioni apocalittiche dell’ultimo secolo, come Giovanni il Battista – che il Signore sta per tornare con potenza per ristabilire la vera giustizia nella martoriata e oppressa terra di Israele. Ma, a differenza di Giovanni, il sovversivo di Nazareth è convinto che questa irruzione di Jahvè nelle vicende dolorose del suo popolo non deve essere “meritata”: essa sarà invece un dono generoso, gratuito, magnanimo, misericordioso del Padre che sta nei cieli.
Ecco perché il “regno di Dio” non si compirà in un’atmosfera triste e uggiosa di penitenza, macerazione e austerità: sarà invece una grande festa di tutto il popolo e si manifesterà – come ben illustrano molte delle sue parabole – come un grande banchetto di fraternità al quale saranno invitati anzitutto i poveri (e gli impoveriti) che non hanno nulla da mangiare, mentre invece la maledizione cadrà sui possidenti avidi e ingenerosi. (…).
Le promesse del Magnificat
Lo sappiamo: nell’attuale assetto economico della Palestina ovunque (anche nella zona di Nazareth, con tutta evidenza) dominano padroni e latifondisti che hanno ereditato e accumulato grandi possedimenti a dispetto della legge del Giubileo; ovunque larghe masse di diseredati languono nella miseria; ovunque i pubblicani mandati a riscuotere le tasse rivendicate con prepotenza dall’Imperatore, da Antipa e dai Sacerdoti sequestrano la farina e l’olio, il vino e la lana di chi non può pagare con moneta sonante. Quella del carpentiere di Nazareth agli occhi di uno storico o di un economista, con una visione precisa dei rapporti di forze in campo, appare giustamente come un’utopia fuori tempo che il realista Giovanni non si è neanche immaginato di proporre alle folle che correvano al Giordano. Da quando le legioni di Pompeo sono giunte in Galilea e Giudea nel 63 a.C. è già passato un secolo; lo schiavismo romano è divenuto il motore dell’economia anche in questa regione periferica (...).
Ma non è solo Roma a fare paura: non sono certo disposti a farsi portar via le loro proprietà i latifondisti (sia ebrei che stranieri) che hanno progressivamente preso il controllo delle terre più fertili di Israele, allungato le mani sui frantoi e sulle sue vigne, e che da tempo possono anche vendere la robusta manovalanza ebraica sui mercati internazionali di schiavi (il più vicino e fruttuoso sta ad Antiochia, nel nord della vicina Siria). E fra i proprietari terrieri più avidi e facoltosi tutti sanno riconoscere i membri (o i prestanome) delle famiglie sacerdotali più in vista, a cominciare da quella di Anna e del genero Caifa, oggi al vertice della gerarchia di Gerusalemme per beneplacito e investitura imperiale. Eppure questo carpentiere che molti vedono come un povero esaltato si ostina ad andare in giro per la Galilea proclamando il nuovo Giubileo e l’imminente caduta di tutti i troni perché sta arrivando la potente mano dell’Altissimo. Mezzo secolo dopo la sua liquidazione ad opera di Pilato, quando deciderà di scrivere il suo vangelo, Luca avrà ben chiaro che proprio questa è la vera sostanza della “bella notizia” che Gesù, il temerario, ha proclamato di villaggio in villaggio. Ecco perché collocherà proprio in apertura del suo vangelo il cantico che attribuisce a Maria, incinta di Gesù: quel canto del Magnificat che non lascia adito a dubbi. (…).
LA TEOCRAZIA, IL REGNO DI DIO
Quelle del rabbì di Nazareth non sono speranze, sono certezze per lui indubitabili. Ora la sua persona, il suo destino e l’annuncio del nuovo Giubileo sono una cosa sola. Egli lo chiama il regno di Dio e non fa sconti a nessuno: i potenti si preparino a essere scalzati dai loro troni e i poveri si tengano pronti a governare la terra, perché dire “regno di Dio” significa sovvertire il mondo (o almeno, per ora, la società di Israele) da cima a fondo. Nella lingua greca usata dagli evangelisti “basilèus” è il sovrano che detiene ogni potere e l’endiadi basilèia toù Theoù vuol dire nient’altro che questo: “l’impero di Dio”. Non c’è dunque possibilità di mediazione e compromesso coi poteri terreni: quella proclamata da Gesù è una vera e propria teocrazia. È l’intera piramide sociale che deve essere – e certamente sarà – rovesciata nel progetto paradossalmente restauratore di Gesù, che predica la piena e immediata attuazione del Giubileo per restituire la libertà agli schiavi, cancellare i debiti che hanno prodotto quella schiavitù e restituire la terra, proprietà esclusiva di Jahvè, a coloro che ne sono i legittimi destinatari: cioè tutti i figli di Israele. È conciliabile l’Impero del Cesare di Roma con l’Impero di Jahvè? Con tutta evidenza, no.
La preghiera del Padre Nostro
Il regno di Dio avrà attuazione sulla terra e quando Gesù lo chiama il Regno dei cieli intende esprimere esattamente lo stesso concetto, perché “i cieli” stanno a indicare Colui che abita i cieli. Non c’è possibilità di equivoco: nessuna fuga in una dimensione metafisica, è qui su questa terra che sta per venire la basilèia toù Theoù, il dominio di Dio. Ed è proprio il rovesciamento dello stato di cose presente annunciato dal carpentiere sovversivo di Nazareth a spiegarci il significato autentico di quelle parole del Padre Nostro che secoli di dottrine e catechismi stravolgeranno, riducendo il “pane quotidiano” a una decorosa e sobria mensa della sopravvivenza e i “debiti” di cui si dovrebbe chiedere perdono alle offese fatte a Dio (ma come si potrebbe mai offendere l’Altissimo!?).
Quanto alla santificazione del nome del Padre celeste, essa non consiste in solenni liturgie né in languidi abbandoni a sentimenti di sdolcinata devozione: santificare la sua gloria significa riconoscere pubblicamente e fattivamente la sua intangibile sovranità che vuole i figli di Israele liberi e felici. Conseguentemente «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» non vuol dire, come ancora oggi purtroppo si insegna, che il credente deve essere disposto ad accettare passivamente come volontà di Dio tutto quanto gli accade, comprese ingiustizia e sopraffazione, ma esattamente il contrario. “Sia fatta” non vuol dire “sia accettata” ma “portata attivamente a compimento”: e la volontà, il desiderio di Dio, in cos’altro consiste se non nella radicale trasformazione di questo miserevole stato di cose che marca di dolore la vita dei suoi figli? Come nei cieli non è mai venuta mai meno la sua signoria, così oggi, subito, adesso, essa deve essere ristabilita in terra di Israele! E chi ascolta queste parole dalla bocca di Gesù non ha bisogno che gli venga spiegato che cos’è la sua signoria di Jahvè: nessun altro se non lui deve essere padrone di questa terra. E i Romani? E tutti gli altri invasori che si sono installati in Giudea, Galilea e nelle altre terre degli Ebrei? Che ne sarà di loro? Ciascuno ne tragga le ovvie conseguenze.
Quanto al pane che si può chiedere al Signore, in greco è definito dai vangeli come epiousìos, parola questa che significa “bastante per oggi e anche per domani”, cioè sicuro e abbondante, a differenza di quello saltuario e insufficiente che a malapena riescono oggi a rimediare i braccianti a giornata e che del quale i pitocchi (i poveri di spirito, cioè di fiato) che affollano gli angoli delle strade non riescono mai a saziarsi.
Infine eccoci ai debiti: la parola del testo evangelico greco è oféleimata e indica inequivocabilmente i prestiti onerosi contratti da chi non riesce più a mettersi in pari con i suoi creditori. Niente a che vedere con peccati e peccatucci vari del catechismo cattolico, perché qui Gesù si riferisce alla disparità di condizione economica che intercorre fra chi ha prestato pane e soldi e chi li ha ricevuti sapendo di non poter mai più saldare il debito. Né più né meno di quello che prevede la legge del Giubileo quando stabilisce l’estinzione dei debiti che accumulandosi nel tempo portano alla rovina i padri di famiglia, riducendoli in condizione di servitù. E identica a quella dell’antico Giubileo è la motivazione di questa remissione dei debiti che i creditori devono concedere a chi si è indebitato con loro: essa è speculare al debito che ogni uomo ha contratto con il Padre, supremo creditore di tutto. Si tratta del debito (oféleima) continuo e sistematico di cui l’uomo è debitore (per la vita, il cibo, l’affetto dei cari, il godimento del mondo) di cui però il Padre generosamente non tiene conto e che in ogni istante cancella a beneficio dei suoi figli. Dunque non c’è possibilità di equivoco: i debiti di cui Gesù parla sono i debiti reali, concreti, materiali che affliggono troppi suoi con nazionali. (…)
Un nuovo modello economico e sociale?
Il rabbì di Nazareth annuncia dunque il nuovo Giubileo: questa è la buona notizia che viene a sconvolgere il sistema economico e di potere che da secoli si è consolidato nella terra di Israele e che l’occupazione romana ha reso ancora più ferocemente ingiusto. Non si tratta di un generico appello alla bontà e alla generosità, ma – per i tempi – di un vero e proprio modello economico che vuole restituire la terra, la dignità e la libertà a chi ne è stato espropriato. (…).
Rovesciando l’attuale regime di prepotenza e di ingiustizia che ammorba oggi le relazioni umane dentro Israele, il Magnificat fa da controcanto all’annuncio della liberazione pronunciato da Gesù nella sinagoga di Nazareth. Questo mondo che ora è padroneggiato da troni e dominazioni umane vedrà compiersi a breve le promesse delle Beatitudini, che consegneranno il mondo ai poveri, ai miti, agli uomini e alle donne di pace, archiviando il sistema schiavistico-militare oggi dominante sotto la vigile e rapace aquila di Roma. Ma non si tratta solo di un programma politico: saranno le relazioni stesse che intercorrono fra le persone a subire una mutazione radicale, come racconta la parabola degli invitati alle nozze del figlio del re. (…)
Se non è questo un autentico sovvertimento sociale! Certo non nei termini e nelle forme con cui l’avrebbero immaginato i movimenti socialisti di fine Ottocento, ma – per i tempi – non si tratta forse di un rovesciamento totale dei rapporti di classe, con i nullatenenti che vengono invitati a godersi i beni della terra, mentre padroni e padroncini egoisti che badano solo ai propri interessi vengono spazzati via dalla storia? Non c’è da stupirsi che un sovversivo simile, dopo aver scandalizzato i miti e rassegnati compaesani di Nazareth, susciti ampi consensi da parte di molti diseredati ma anche furiose reazioni di rifiuto in chi pensa di aver tutto da perdere se gli viene negata la possibilità di continuare a lucrare sulle miserie altrui. (…).
IL MANIFESTO DEL SOVVERSIVO DI NAZARETH
È molto difficile trovare dei passi dei vangeli che siano stati fraintesi, equivocati, maltrattati quanto quelli che riassumono nelle Beatitudini la sostanza dell’annuncio liberante di Gesù di Nazareth. Molti e diversi sono i motivi che hanno spinto i predicatori e la nascente istituzione ecclesiastica dei primi secoli a “spiritualizzare” le beatitudini, spogliandole della loro concretezza fisica e carnale e progressivamente sminuendo, fino ad estinguerla, la loro carica socialmente e politicamente eversiva.
Abbiamo già detto dell’urgenza, per gli evangelisti, di depurare la figura e l’annuncio di Gesù di ogni carattere sovversivo che potesse suscitare sospetto nelle autorità romane e provocare una dura repressione delle fragili e ancora sparute comunità diffuse nell’Impero. Non possiamo neppure dimenticare la delusione per la mancata “parusìa”, cioè per il mancato trionfale ritorno del Cristo risorto vincitore che per alcuni decenni ha alimentato l’attesa dei credenti: il che ha indotto i cristiani delle prime generazioni, smarriti e delusi, a proiettare in un futuro indeterminato l’avvento del regno di Dio.
Quando poi la Chiesa prese il posto dell’Impero, l’autorità religiosa si sentì investita del dovere di garantire l’ordine sociale: per evitare turbolenze, sommosse e ribellioni che potevano scaturire dal malcontento economico di gran parte della popolazione, la soluzione più facile fu quella di proiettare in un futuro indefinito, alla fine della storia, il risarcimento dei poveri, cristallizzando a tempo indeterminato il dominio di pochi.
La carica socialmente eversiva dell’annuncio della Regno finì così, progressivamente, per perdere gli originari contorni di una reale e concreta trasformazione delle relazioni sociali – e dei rapporti di potere – non solo in Giudea e Galilea, ma in tutto l’Impero. Il Medioevo e l’era moderna non avrebbero granché modificato l’ideologia ecclesiastica in fatto socioeconomico e anche i rari movimenti che propugnarono una ridistribuzione dei beni della terra furono duramente repressi dai sovrani con il beneplacito papale. E così le Beatitudini finirono ben presto per assurgere a modelli di paziente accettazione del presente, di rassegnata sopportazione della violenza, di esemplare arrendevole passività in attesa di una redenzione tutta proiettata in un futuro metafisico e ultramondano.
Ma se questa smaterializzazione delle Beatitudini le deprivò ben presto della loro potenzialità eversiva, noi, che vogliamo accostarci il più possibile al Gesù storico, non possiamo dimenticare che in origine, in terra ebraica, all’inizio del I secolo, le Beatitudini proclamate da Gesù furono ben altro che generici appelli a un innocuo e mansueto buonismo morale.
Nel momento in cui vengono proclamate dall’operaio di Nazareth fattosi portatore di un annuncio grandioso e liberante, esse si presentano come concretissime e pericolose benedizioni riservate ad alcune precise categorie sociali e morali, mentre per altri gruppi la condanna di Gesù è irrevocabilmente severa. Non possiamo dimenticare – l’abbiamo più volte ripetuto – che in Gesù i concetti di vita e di corpo coincidono totalmente – come è normale per un ebreo del suo tempo – perché è semmai la filosofia greca di ispirazione platonica ad avere sancito la dicotomia corpo-anima, con la conseguente svalutazione di questo a favore di una dimensione metafisica della vita interiore tutta proiettata in un mondo ideale ultraterreno.
Converrà dunque, nel contesto di questa indagine, far risuonare queste benedizioni di Gesù nel tempo e nel luogo preciso in cui egli le enuncia per poterne afferrare l’autentico rivoluzionario programma di trasformazione sociale.
“Beati”: che cosa significa questa parola?
Partiamo da un’osservazione di ordine linguistico che analizza il termine scelto da Matteo e Luca per designare il particolare tipo di felicità che Gesù promette a coloro che lo stanno ascoltando. Non conoscendo, per i motivi già illustrati in precedenza, la precisa parola aramaica usata da Gesù per designare le Beatitudini, dovremo attenerci almeno a un’attenta indagine del termine greco impiegato dagli evangelisti.
Osserviamo dunque che per dire “felice” in greco Matteo e Luca avrebbero potuto ricorrere ai termini òlbios (che indica però una gioia basata sul possesso dei beni) oppure eudaimonìa (la virtù di chi si contenta di ciò che ha). Perché invece i due evangelisti ricorrono al termine makàrioi? Perché makàrios è parola che descrive un diverso tipo di felicità: quella di chi è felice della propria impresa (nel greco classico la parola è spesso riferita agli eroi di guerra). Dunque – e questo è importantissimo! – la felicità proposta da Gesù è quella che si conquista attivamente, dandosi da fare, con energia e coraggio: il contrario di quella passiva rassegnazione al presente che si autocommisera in vista della promessa di una felicità futura.
Osserviamo anche un fatto singolare: stranamente Marco non segnala questo discorso di Gesù, ritenendo che il resto del suo vangelo basti a evidenziare la sostanza della radicale novità portata dal rabbì di Nazareth. Sono Matteo e Luca a stendere, per così dire, un esplicito manifesto del vangelo di Gesù: ma la sua promulgazione avviene in due situazioni geografiche e narrative molto diverse. Il racconto di Matteo fa infatti parte del cosiddetto “discorso della montagna”, mentre Luca chiama Gesù a enunciare le Beatitudini, con tono ben più perentorio e perfino minaccioso, nel “discorso della pianura”. Questo non deve però disorientarci, perché è facile supporre che Gesù abbia enunciato in diverse occasioni questa sintesi del suo annuncio, proclamando a più riprese le Beatitudini in situazioni differenti e davanti a uditori diversi, senza mutare d’una virgola la sostanza delle sue promesse di felicità. (…). Chi può negare che con queste parole Gesù prenda risolutamente le parti degli esclusi, dei discriminati, di chi subisce violenza? Su questo tutti sono d’accordo. Molto più difficile, per chi vuole edulcorarne il messaggio, ammettere che queste non sono affatto promesse per il mondo ultraterreno, ma anticipazioni del radicale rovesciamento delle relazioni sociali oggi dominanti (diciamo pure: dei rapporti di forza e di classe) che sarà realizzato dall’imminente venuta del Figlio dell’Uomo su mandato dell’Altissimo.
Intenzionale o no, questo è il fraintendimento del quale il potere (politico e religioso) si è sempre servito per “castrare” le Beatitudini attenuandone, fino a cancellarlo, il potenziale eversivo e sovversivo destinato non a un remoto domani, ma all’oggi. A essere fraintesa, indebolita, manipolata, e anche sfruttata a fini di potere, è infatti la parola che viene ostinatamente ribadita nei due passi evangelici che stiamo esaminando. Si è inteso infatti “beati” nel senso di “sarete beati”, avrete un risarcimento in paradiso, troverete la vostra ricompensa dopo la morte. Ma come si può possedere la terra dopo la morte? È qui, ora, che il Regno sta per compiersi; che la piena felicità attende i poveri, i miti, gli operatori di pace, quelli che hanno fame e che piangono. In sostanza, mancando un verbo nell’enunciazione della prima parte delle beatitudini, ha fatto comodo a molti, a troppi, sottintendere un futuro “compensativo” remoto, proiettato in un domani lontano e indefinito. (…).
Chi sono davvero i “poveri di spirito”?
E quanto è stata fraintesa e offesa la parola “poveri”, fino a legittimare la povertà tutta e solo spirituale dei ricchi, quelli che Luca invece maledice perché si sono già goduti la vita e i beni del mondo! E come è stata mal tradotta e mal interpretata anche la parola “spirito”, generando un totale fraintendimento della prima beatitudine, con simmetrica ricaduta anche sulle altre!
L’espressione greca usata dagli evangelisti è ptokòi to pnèumati. Pnèuma non è altro che il respiro, il fiato (non l’anima in senso platonico, che comunque sarebbe “psychè”, in italiano “psiche”). Per restare fedeli al senso originario di questa espressione dovremmo quindi correggere l’espressione “poveri di spirito” usando le parole “voi pitocchi di fiato”, cioè voi che dalla miseria siete stati privati anche della forza di respirare, o più semplicemente: “voi disperati”. Insomma, la prima cosa che dobbiamo fare è togliere la patina di sdolcinata e fuorviante commiserazione di cui le Beatitudini sono state rivestite nei secoli e che ancora oggi ne accompagna le blande, paciose spiegazioni di molti predicatori e catechisti che le riducono a languide e svigorite consolazioni dei perdenti e dei vinti.
Che cosa viene promesso da Gesù a questi “pitocchi senza fiato”, a questi disperati? Nientemeno che il “Regno dei cieli”, che non sta certo a indicare una geografia ultraterrena ma designa piuttosto “l’impero di Dio” su questa terra. Così pure i “miti” non sono coloro che, disposti a tutto subire, assumono un comportamento remissivo e arrendevole, quanto invece quelli che rifiutano di esercitare il dominio traendone un perverso piacere e lavorano invece per un mondo in cui fra gli uomini regni il rispetto reciproco. Allo stesso modo i “pacifici” non sono i non violenti ma coloro che edificano la pace realizzando la giustizia che la rende possibile, mentre i “puri di cuore” non nutrono alcuna fobia del sesso ma dispongono di una tale apertura del cuore e della mente da saper guardare oltre il presente e scorgere nel futuro il nuovo che viene. Infine, la “ricompensa nei cieli”: per coloro che non rinnegheranno il sogno di Gesù ma saranno pronti a testimoniarlo fino alla fine essa non consisterà in un posticino fra le nubi abitate da cherubini e serafini, ma nella partecipazione gioiosa al rinnovamento del mondo che sta per essere realizzato dal Figlio dell’Uomo. Si tratterà della piena, appagante consapevolezza di non aver vissuto un’esistenza inutile ripiegata su stessa per sperimentare invece la pienezza di una vita spesa al servizio della “cosa nuova”. Occorre insomma trascinare le Beatitudini giù dagli evanescenti e nebulosi mondi celesti in cui sono state relegate da una predicazione elusiva, disincarnata e alienante, per portarle a camminare su questa terra. (…).
Se Giovanni predicava a gran voce la restaurazione di Israele, corrotta da quelli che con Antipa vivono imitando greci e romani, con Gesù la prospettiva è totalmente cambiata: non conta più il comportamento morale individuale, quello che serve adesso è una trasformazione fin dalle fondamenta dei meccanismi perversi che regolano i rapporti sociali (economici, di proprietà, di status giuridico), è l’intera società che deve cambiare. Questo è l’approdo a cui l’ha condotto la metànoia cominciata al Giordano, e forse anche prima. Valore supremo non è più la centralità della nazione fondata sull’elezione divina, ma la persona singola e concreta, soprattutto quando soffre e ha perso ogni speranza. Sono i poveri, i vinti, gli asserviti, i dolenti a costituire il baricentro del nuovo racconto: e lo sono in quanto controparte scelta dall’Altissimo che per loro ha deciso di rovesciare troni e potenze terrene, in modo che la sovranità appartenga agli ultimi e ai reietti che nella storia non contano nulla. È politica questa? Certamente. Come si fa a dire che il vangelo, che il sogno della “cosa nuova” chiamata Regno, non è politica?
*Foto da Unsplash, immagine originale e licenza
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