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ROMERO PRIMA DI ROMERO

- trent’anni fa, l’assassinio del gesuita salva-doregno rutilio grande, amico ed ispiratore del vescovo martire. QUESTO ARTICOLO, DI NIKOLAUS KLEIN, È STATO PUBBLICATO SUL QUINDICINALE CATTOLICO SVIZZERO “ORIENTIERUNG”

Tratto da: Adista Contesti n° 26 del 31/03/2007

Gli anni '80 del secolo scorso sono stati più volte descritti dagli economisti come un "decennio perduto" per la maggior parte dei Paesi latinoamericani, e soprattutto per quelli del Centroamerica. Se si guarda, però, allo sviluppo sociale e politico nei singoli Paesi, il quadro appare più complesso di quanto suggerisca l'idea di "de-cennio perduto". In tale contesto, tra gli avvenimenti nella regione centroamericana, occupa sicuramente un posto rilevante la caduta del dittatore Anastasio Somoza in Nicaragua, il 19 luglio 1979, per mano dell'esercito rivoluzionario sandinista. In Guatemala e in Salvador si arrivò, negli anni '80 – accanto alla lotta armata della guerriglia rispettivamente dell'Urng e del Fmln – ad una mobilitazione della società civile che, nonostante le alterne fortune e una repressione sempre più sanguinosa da parte dell'esercito e del governo, con squadroni della morte e unità paramilitari, riuscì a preparare il terreno per i negoziati di pace. Il 7 agosto 1987 i cinque capi di governo dei Paesi del Centramerica stipularono a Città del Guatemala l'accordo per un "processo per la creazione di una pace duratura in America centrale" (Esquipulas II). In quell'occasione, si espressero unanimemente anche riguardo ai negoziati per l'armistizio, per una legge sull'amnistia, per libere elezioni e per la creazione di commissioni di riconciliazione nazionale che potessero dare spazio ad un dialogo politico. Sulla base di questo accordo regionale, il 12 gennaio 1992 è stato stipulato l'accordo di Chapultepec tra il Fmln e il governo del Salvador del presidente Alfredo Cristiani, e il 29 dicembre 1997 a Città del Guatemala quello tra il governo del Guatemala del presidente Alvaro Arzú e l'Urng.

La base di questo processo di democratizzazione, che ha trovato nell’accordo di pace di Chapultepec la sua elaborazione a livello di diritto internazionale, è stata posta in Salvador negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. In tale contesto, ha giocato un ruolo decisivo la Chiesa cattolica, con l'arcivescovo di San Salvador Luís Chávez González, in carica dal 1938 al 1977, e il suo successore Oscar Arnulfo Romero, in carica dal 1977 al 1980. Quando ogni anno a San Salvador, il 24 marzo, si ricorda il giorno dell'assassinio dell'arcivescovo Romero in celebrazioni e manifestazioni al grido di "San Romero d'America, risorto nel popolo salvadoregno", si esprime la speranza che la sua azione per la liberazione e la democratizzazione sia ancora viva nel popolo salvadoregno, e trovi il suo proseguimento nelle lotte per una società più giusta. In queste celebrazioni, sono al centro dell'attenzione la figura e l'opera dell'arcivescovo assassinato, e di volta in volta vengono ricordate anche quelle persone che, per aver fatto le sue stessescelte, sono state uccise durante il suo episcopato e dopo il suo assassinio. Così, il 12 marzo di quest'anno, in El Salvador, si è ricordato il trentesimo anniversario della morte del padre gesuita Rutilio Grande. Quel sabato pomeriggio di trent'anni fa, in compagnia di Manuel Solorzano, un uomo di settantadue anni, e del sedicenne Nelson Rutilio Lemus di Aguilares, egli si stava recando al vicino villaggio di El Paisnal, per celebrare la messa prefestiva. A metà strada gli assassini lo aspettarono nella piana dei campi di canna da zucchero e aprirono il fuoco sulla sua macchina. Tutti e tre gli occupanti morirono sul colpo.

Rutilio Grande è stato il primo prete negli anni Settanta ad essere ucciso in Salvador. Per questo motivo, la sua morte violenta fece da segnale, perché era chiaro a tutti in Salvador che con questa azione era stato valicato un confine fino a quel momento intatto. L'arcivescovo Romero inoltre fu personalmente toccato dall'assassinio, perché Rutilio Grande non era solo un parroco attivo nella sua diocesi, ma i due erano legati da una lunga amicizia, anche se l'arcivescovo non approvava tutte le posizioni politiche e teologiche del suo amico. Oltre a ciò, il gesuita assassinato godeva di una stima a livello nazionale per il suo lavoro pastorale e le sue prese di posizione pubbliche su questioni ecclesiali e sociali. Queste circostanze vennero rievocate nel secondo comunicato stampa diffuso dall'arcivescovado di El Salvador, il 14 marzo 1977: "Il vero motivo della morte di p. Rutilio Grande è stato il suo sforzo pastorale di impegnarsi in modo profetico per la coscientizzazione a tutti i livelli della parrocchia. Nel rispetto per le pratiche religiose tradizionali della comunità, si è dato da fare con gradualità per la costruzione di una comunità della fede, della speranza e dell'amore reciproco. Ha rafforzato nei credenti la consapevolezza dei loro valori umani, dei loro diritti fondamentali e dell'esigenza di promuovere l'ideale di uno sviluppo integrale dell'uomo. Questa azione nella tradizione del Concilio Vaticano II sicuramente non era gradita a tutti, perché metteva in discussione la 'buona coscienza' di tutte le persone. Si trattava di un'azione che disturbava molti ed è per questo che hanno ucciso colui che aveva incoraggiato questi processi. In questo caso hanno colpito p. Rutilio Grande". Questo breve brano di una dichiarazione ben più lunga fornisce una descrizione dei motivi e del metodo di lavoro di Rutilio Grande, lo pone nel contesto della situazione conflittuale dell'epoca in El Salvador e fa proprie le sue scelte. Nella sua pregnanza diventa ancora più significativo, se si tengono presenti i conflitti sociali e politici in Salvador durante i mesi precedenti alla morte di Rutilio Grande e se si conosce bene la sua biografia.

Il Salvador nel XX secolo

Il 1932 rappresenta una data chiave nella storia del Salvador nel ventesimo secolo. Il generale Maximiliano Hernández Martínez, giunto al potere grazie ad un colpo di Stato militare, aveva soffocato nel sangue una rivolta di campesinos e lavoratori che lottavano per la loro sopravvivenza dopo il crollo dell'esportazione di caffè. DA allora, non soltanto è restato vivo nella popolazione il ricordo dei brutali massacri, chiamati la matanza, ma contemporaneamente si è instaurato un labile equilibrio tra il capitalismo agrario, il settore industriale e i militari, all’interno del quale, nel corso dei decenni, ci sono stati insignificanti spostamenti di forze e scambi di coalizioni, ma che è sempre restato subordinato allo scopo comune dei tre gruppi, quello di mantenere il potere. Dopo la sconfitta militare del Salvador nella "guerra del football" con l'Honduras, nel 1969, 300.000 campesinos salvadoregni furono costretti a lasciare quel Paese. Questo aumento repentino di contadini senza lavoro e l'insuccesso della ristrutturazione economica provocarono un aumento delle tensioni sociali. Come reazione a questo fatto, all'inizio degli anni '70, si costituirono, accanto a nuovi partiti di opposizione, anche i primi gruppi di guerriglieri. Il tentativo del presidente Arturo Armando Molina di reagire ai crescenti conflitti nel 1976 con una timida riforma agraria, fu infranto, dopo pochi mesi, dall'equilibrio di forze che dominava dagli anni '30. Non solo naufragò il tentativo di trovare una soluzione ai problemi sociali sempre più gravi, ma divenne anche sempre più chiaro che il sistema politico tradizionale, in Salvador, non era in grado di trovare una risposta ai problemi esistenti nel quadro delle istituzioni democratiche. Il governo e l'esercito reagirono con una repressione sempre più pesante alla militarizzazione di una parte dell'opposizione. Tra il gennaio e il luglio 1976 ci furono 406 omicidi politici e 307 sequestri.

Sempre più preti e alte autorità della Chiesa si videro trascinati in questo conflitto ogni giorno più grave. Al divieto di creare sindacati contadini a partire dal 1965, l'arcidiocesi di San Salvador reagì con la creazione di centri nei quali si offriva ai contadini non solo una formazione di base sull'economia, ma anche informazioni fondamentali sulla salute, sulla società, nonché un programma di alfabetizzazione. L'avvio di letture bibliche fu realizzato, con conoscenze di base, nel lavoro di gruppo. I primi "delegati della parola" cominciarono il loro lavoro nelle comunità. Così, la Chiesa decise di portare avanti una "pastorale di accompagnamento", grazie al cui aiuto le varie organizzazioni e comunità poterono sviluppare in modo indipendente e autonomo le scelte e i metodi con cui metterle in atto. Una ripercussione della nuova mentalità portata da tali processi si ha nella lettera pastorale dell'arcivescovo Luís Chávez Gonzáles "La responsabilità dei laici nell'ordine temporale" del 1966. In questo testo, si trovano accenni ad un'analisi strutturale della situazione sociale del Salvador, laddove l'arcivescovo descrive come "ingiustizia strutturale" una condizione che si fonda su una ingiusta distribuzione dei beni economici. Luís Chávez Gonzáles afferma che la dottrina sociale della Chiesa consiste non solo in uno studio di testi e documenti, ma "nella formazione nella, con e per l'azione". Con questa definizione, fa dei laici i veri e propri rappresentanti del processo socio-politico.

Questa lettera pastorale provocò una forte reazione negli strati dominanti che andava ben oltre la discussione critica: un illustre esperto è chiamato ad esporre l'"autentica" visione della Chiesa cattolica. Qui si evidenzia già il modo in cui negli anni successivi la discussione sia proseguita con Romero, successore dell'arcivescovo Luís Chávez Gonzáles: le posizioni politiche e sociali di entrambi gli arcivescovi vengono descritte come un fraintendimento e un pericolo per la "vera" fede, e si cerca allo stesso tempo il sostegno del Nunzio pontificio e della Curia vaticana. L'oligarchia cerca anche di proporre a Roma un successore per l'arcivescovo in pensione, dal quale ci si potesse aspettare una correzione delle posizioni del predecessore. Romero è debitore della sua nomina ad arcivescovo di San Salvador a questa costellazione di potere, visto che, come vescovo ausiliare di San Salvador e come vescovo di Santa Maria, egli aveva più volte espresso una critica alla parte del clero che si era schierata dalla parte della Teologia della Liberazione e delle riforme ecclesiali e politico-sociali. Che l'oligarchia alla fine abbia avuto torto nella propria idea di avere nel nuovo arcivescovo un fattore stabilizzante del fragile equilibrio di poteri, si spiega col fatto che si erano sbagliati sulla sua persona. Perché Oscar Romero lottò per tutta la sua vita per un'autentica comprensione del Vangelo, e allo stesso tempo era del tutto estraneo all'idea di sfruttare le speranze della gente per stringere rapporti di potere.

Era affascinato dalle persone, alle quali riconosceva una lotta dignitosa per una esistenza cristiana, e cercò la loro vicinanza e la loro amicizia. Con l'assassinio di Rutilio Grande, Oscar Romero non perse solo un amico personale, ma vide anche messe in discussione quelle scelte per le quali il gesuita assassinato aveva lottato e per le quali egli stesso si batteva. È questo che testimoniano le sue prime dichiarazioni nel corso della visita di condoglianze alla parrocchia di Aguilares, la sua predica durante la messa di incardinamento e le posizioni ufficiali dell'arcivescovado. Egli diede a queste singole azioni un peso particolare, decidendo, dopo una consultazione con i propri collaboratori, di disdire il 20 marzo in arcidiocesi tutte le messe domenicali e di invitare tutti i credenti a celebrare un'unica eucaristia organizzata ad hoc nella Cattedrale di San Salvador.

Oscar Romero e Rutilio Grande

Per ciò che riguarda in particolare le reazioni personali di Oscar Romero e le sue azioni ufficiali dopo l'assassinio di Rutilio Grande, ciò che era in gioco con la morte di quest'ultimo per l'arcidiocesi di San Salvador e per il Paese del Salvador era una spontanea combinazione di dolore personale e di una percezione che andava oltre lo sgomento individuale. Guardando alla biografia dei due amici oggi, si può dire che questa visione era presente in entrambi in eguale misura. Rutilio Grande si riteneva un pastore che si sforzava di portare a compimento il compito a lui affidato ad Aguilares nella difficile quotidianità di un lavoro minuzioso. A questo proposito, aveva sviluppato una sensibilità per gli avvenimenti che riguardavano l'arcidiocesi e l'intero Paese, e aveva dimostrato un infallibile fiuto per quei momenti in cui era importante farsi sentire da un pubblico più ampio. Così, non soltanto alcuni momenti decisivi della sua biografia coincisero con punti di svolta nella storia del Salvador, a livello ecclesiale e nazionale, ma lui stesso fu uno degli attori determinanti che misero le cose in movimento. Nel giugno 1970 ebbe luogo a San Salvador la prima settimana nazionale di studi per una "pastorale d'insieme". Con essa la Conferenza episcopale salvadoregna affrontava un tema la cui gestione era stata chiesta da molti preti impegnati in appoggio alle conclusioni della Seconda Assemblea dell'episcopato latino-americano di Medellin (1968). Si trattava di delineare i principi di una pastorale che nascesse da una comprensione integrale dello sviluppo e della liberazione umani.

Le consultazioni della settimana di studio si riflessero in un documento in cui la Chiesa viene concepita come una comunità di credenti che, rispetto all'ingiustizia strutturale del Salvador, non può più tirarsi indietro. Ancora di più la situazione attuale richiedeva che la Chiesa diventasse consapevole della propria complicità nelle strutture di ingiustizia, e percorresse la strada di una "riforma permanente". Ciò sarebbe stato possibile se essa avesse intrapreso un dialogo di ampia portata. Quando la Conferenza episcopale salvadoregna, il 23 luglio 1970, rimandò indietro il documento della Settimana di studio perché attaccava l'ortodossia, la disciplina e le istituzioni ecclesiali, e allo stesso tempo annunciò che la Conferenza episcopale avrebbe intrapreso una rielaborazione del testo, Rutilio Grande chiese la parola. Scrisse alla Conferenza episcopale una lettera in cui chiedeva di non modificare le conclusioni del documento, e pubblicò, dopo le conclusioni della Settimana di studio, un'appendice di contributi sui giornali del Salvador, in cui esponeva ai critici le intenzioni e i risultati prodotti da quell’incontro.

Quando all'inizio del novembre del 1970 apparve la versione approvata del testo, redatta dalla Conferenza episcopale, Rutilio Grande, nel corso di un'assemblea del clero dell'arcidiocesi, difese le intenzioni dei partecipanti alla Settimana di studio di fronte alle riserve riflesse nella redazione modificata del testo. Soprattutto, egli criticava la tendenza della redazione definitiva a eliminare dal testo tutti i riferimenti al coinvolgimento della Chiesa nel conflitto nazionale e tutti gli elementi di analisi strutturale della situazione sociale e politica. Tuttavia, propose di utilizzare il documento modificato come punto di partenza per l'attività pastorale. Forse c'è da essere grati di questa proposta, che fu formulata in un editoriale del giornale diocesano "Orien-tación", secondo cui la versione rielaborata avrebbe rappresentato un fondamento "per pensare in futuro alla coscienza di una Chiesa dei poveri".

In questa lotta per un nuovo orientamento pastorale, Rutilio Grande fece ancora un altro passo. Poiché aveva l'incarico di prefetto del seminario per le celebrazioni liturgiche della festa nazionale (6 agosto), colse l'occasione per chiarire la sua posizione durante la celebrazione in cattedrale. In questo discorso, che iniziava secondo uno schema apparentemente tradizionale, cioè parlando dei motivi per i quali si partecipava a quella celebrazione e ricordando la tradizione, con l'allusione all'uguaglianza semantica tra il nome del Paese "El Salvador" e il titolo cristologico "il Salvatore", sviluppò il tema secondo il modello della "critica interna": la realtà attuale viene valutata in base agli ideali cercati e viene definita insufficiente con un’analisi dettagliata. Con questo modo di procedere Rutilio Grande dimostrò che forza di critica sociale può esserci nella riflessione teologica. Ciò venne riconosciuto anche da chi ascoltava. Ma per lui, che fino a quel momento era stato il candidato favorito alla nomina di rettore del Seminario, questo voleva anche dire essere respinto dalla Conferenza episcopale.

Con questo discorso, Rutilio Grande offrì un esempio di linguaggio liberante dell'annuncio della Chiesa, del quale anche Oscar Romero, durante il suo incarico di arcivescovo di San Salvador, si impadronì e coltivò. Su questo punto avremmo voluto vedere una comunanza ancora maggiore tra i due amici. Molti contemporanei di Oscar Romero hanno raccontato di come egli, di fronte alla salma del suo amico, abbia vissuto una conversione, quando vide il modo in cui il suo amico si era sforzato di mettere d'accordo ciò che faceva con ciò che diceva. Sicuramente quello fu un momento determinante, ma l'esempio di Rutilio Grande lavorò dentro di lui in un senso molto più ampio. Romero, che teneva in conto anche la capacità oratoria dei propri interlocutori, deve essere stato impressionato dalla forza persuasiva degli argomenti del suo amico. Nei suoi sforzi di mettere d'accordo parola e azione, e allo stesso tempo di trovare il linguaggio giusto, deve aver riconosciuto il modello per il suo ufficio episcopale.

Romero ha sempre negato di aver avuto una conversione. Anzi, egli scrisse esplicitamente: "Ho sempre cercato di spiegare ciò che è accaduto nella mia vita sacerdotale, come sviluppo del desiderio, da sempre nutrito, di essere fedele a ciò che Dio voleva da me. Se in precedenza ho dato l'impressione di essere 'discreto' e 'spiri-tuale', era perché credevo seriamente, in questo modo, di essere conforme al Vangelo; le circostanze del mio incarico allora non avevano il valore pastorale che hanno quelle in cui sono diventato arcivescovo". Questo brano è contenuto in un memorandum nel quale Romero, il 24 giugno 1978, reagì alle accuse e alle critiche che qualche giorno prima il presidente della Congregazione per i vescovi, il cardinale Sebastiano Baggio, aveva espresso in una discussione. Se la vistosa sottolineatura della continuità di fronte ad un marcato giudizio sulle mutate circostanze fosse stata vista come un'affermazione difensiva, non si sarebbe resa giustizia alla cosa essenziale, e cioè che queste frasi sono parte di un testo toccante per la sua sincerità, delle affermazioni autocritiche, ma anche per la fedeltà che viene espressa alle decisioni prese un tempo. Oscar Romero offre in queste righe una descrizione di sé, che intende l'identità come il voler trovare la propria forma nell'immergersi nei singoli contesti concreti.

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