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ESTERO, PACE, DIRITTI, GRANDI ASSENTI DI QUESTA CAMPAGNA ELETTORALE Intervista a Nicoletta Dentico

Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 22/03/2008

Nel fermento pre-elettorale, sono nati nuovi soggetti politici che hanno ridisegnato il panorama delle appartenenze e della rappresentanza. Con quali sentimenti vivi questo fermento e cosa è cambiato?

Questo riassetto pre-elettorale può portare elementi di dinamicità e di chiarezza tutto sommato apprezzabili, ma la posta in palio è alta. Altissima. Personalmente, vivo questi passaggi con senso di grande incertezza e con un sentimento di non appartenenza, politicamente parlando. Mi chiedo fino a che punto la costituzione del nuovo soggetto della Sinistra Arcobaleno corrisponda ad un disegno profondamente condiviso di alternativa, ovvero non si tratti di una asettica strategia di accorpamento elettorale, peraltro incapace di nascondere divisioni e discrepanze. Ho difficoltà a darmi una ragione dell’acre presa di distanza della leadership del Pd dalla componente della sinistra, la chiara determinazione a rinnegare parte della sua cultura originaria in nome di una insostenibile leggerezza del messaggio elettorale. Il Pd vuole chiaramente presentarsi a queste elezioni con una faccia centrista, senza nessuna contaminazione con la sinistra, e ridurre la campagna elettorale ad un mero confronto fra Pd e Pdl. Questo duopolio ha tratti inquietanti, potenzialmente forieri di esiti politici indigeribili. Infine resta l’elemento dell’astensionismo, soprattutto quello che proviene da sinistra, che potrebbe pagare a carissimo prezzo l’adesione al patto del governo Prodi. Il non voto è una forma di scelta anch’essa, estrema. Una scelta davvero lontana dalla mia personale cultura di partecipazione alla politica. Eppure, lo allude suggestivamente Saramago nel suo “Saggio sulla Lucidità”, forse potrebbe essere arrivato il momento di ripensare questa scelta nel segno del superamento della mera dispersione del voto per organizzare invece in maniera costruttiva e con creativa passione politica una nuova strutturazione del non voto. È una sollecitazione a cui non posso dirmi del tutto insensibile.

Intanto, il fermento non placa il disagio personale. Il declino dell’Italia è sotto gli occhi di tutti, ed i grandi problemi del nostro Paese, incancrenitisi nel tempo, non compaiono nelle agende elettorali se non con leggerezza e viziate talora da un deficit di cultura istituzionale. Mi riferisco in particolare alla criminalità organizzata strutturalmente padrona in alcune regioni ed apparentemente inespugnabile, anche in virtù dei suoi processi di globalizzazione, ovvero alla cultura della corruzione che permea percettivamente molte delle relazioni sociali ed economiche. Alludo al pericolosamente arretrato livello dei finanziamenti a favore del sistema istruzione, che blocca la formazione e la ricerca, laddove il pubblico investimento nella conoscenza vuol dire lavorare per il futuro del Paese, e non solo in termini superficialmente produttivi, se non vogliamo precipitare a rotoloni lungo la china di un Paese a civiltà sempre più limitata, come diceva Paolo Sylos Labini. Infine penso alla poca oculatezza delle politiche sociali, in un Paese che invecchia e che non ha mai sperimentato politiche illuminate a favore della famiglia. 

           

“Italia-Africa”, i viaggi scolastici in Mozambico, i libri: questa la dichiarazione d’amore di Veltroni-sindaco al continente africano. In questa campagna elettorale, però, tale passione non sembra così evidente...

Sono convinta che l’uomo Veltroni sia sinceramente sensibile alle questioni del continente africano. Gli va riconosciuto di essere stato uno dei rari, rarissimi uomini politici italiani ad essersi preso la briga di pianificare un viaggio di conoscenza nelle terre dell’Africa. Non è poco, anche per alcuni tratti interessanti di quel viaggio. Il problema semmai è un altro: è l’uso talora equivocamente strumentale che il politico Veltroni ha fatto di questa sua esperienza, un fatto che già allora aveva suscitato reazioni indignate. Questo afflato di Veltroni per l’Africa, del resto, finora ha sortito iniziative di natura pedagogico-umanitaria. Sono certa che per i fortunati studenti che hanno avuto l’opportunità di un viaggio in Mozambico, questa esperienza segni un crinale importante del loro bagaglio di vita. Credo però si possa dire che Veltroni, già vice presidente del Consiglio nel primo governo Prodi e poi sindaco di una città vicina in maniera particolare al continente africano - non foss’altro che per la presenza del Vaticano e delle agenzie delle Nazioni Unite - abbia scelto tutto sommato una via anodina per trattare questi temi. Una strategia “soft”, insomma, che finora non ha mai messo veramente in discussione le politiche di impoverimento dell’Afri-ca. Già all’indomani del viaggio africano, con l’uscita del libro Forse anche Dio è malato, ricordo che rimasi francamente delusa dal tenore delle proposte politiche formulate; mi riferisco in particolare all’idea dell’estensione del G8 ad alcuni Paesi del sud del mondo, fra cui il Sudafrica. Ci lessi francamente una vena demagogica, che allora trovai poco convincente.

Purtroppo la politica estera è la grande assente dalla campagna elettorale. Mi auguro sia possibile capitalizzare l’interesse veltroniano per l’Africa, ma di fronte alle sfide che attanagliano il continente ci vuole un deciso colpo di reni, una svolta da parte del leader del Pd. Serve il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e di proporre politiche nuove per lo sviluppo dell’Africa. A livello nazionale, ma soprattutto in ambito europeo, dove si gioca la grande partita del negoziato con quel continente. Mi auguro che Veltroni si faccia circondare dalle persone giuste, per fare il necessario salto di qualità. Il tempo delle scelte non è scaduto!

 

In questa campagna elettorale tutto sembra rimesso in discussione, anche le questioni economiche e sociali che definivano la tradizionale appartenenza politica. Cosa significa destra e sinistra oggi?

La coppia antitetica destra-sinistra è esposta a uno strano destino di “smarrimento di identità”, come Marco Revelli scrive acutamente nel suo ultimo libro. Pur essendo il riferimento obbligato di ogni discorso sulla politica, la tradizionale suddivisione destra-sinistra sempre meno riesce a sintetizzarne adeguatamente le differenti identità. È infatti senso comune ormai che le differenze all'interno della "casta" della politica si siano sempre più assottigliate: quindi no, non è più possibile parlare di destra e sinistra. È peraltro un paradosso che questo svuotamento semantico, tradizionalmente proposto da destra, ed oggi - questo per me il vero vulnus dell’operazione elettorale veltroniana - anche da sinistra,  sembra ormai irreversibile proprio nell'epoca in cui le disuguaglianze raggiungono su scala globale il loro massimo storico. La crisi di questi concetti va allora contestualizzata entro la crisi complessiva della modernità ed il difficile e repentino passaggio verso uno spazio nuovo, aperto, le cui coordinate non ci sono ancora del tutto chiare.

Nel Parlamento che verrà, chi si prenderà carico delle questioni a te care (pace, nonviolenza, accesso ai farmaci, armamenti…)?

Quello che so è che persone sinceramente impegnate e competenti su questi temi non saranno candidate di nuovo in Parlamento: penso a Tana de Zulueta e a Francesco Martone. Un dato per nulla promettente. Gli spazi per le tematiche della pace e dello sviluppo si assottiglieranno, non c’è dubbio. Le culture di analisi, mediazione e risoluzione delle problematiche inerenti alle questioni a me care risentono in generale di una rivisitazione al ribasso, di un approccio pragmatico che tende ad evitare le ragioni profonde dell’ingiustizia, che non mette in discussione le cause delle disuguaglianze nel mondo, e propone ancora la crescita economica come soluzione di tutti i problemi. Nel frattempo, l’attenzione sacrosanta per il diritto alla vita si limita perlopiù al diritto dell’embrione. Si parla poco o niente dei vivi morenti - ogni giorno a migliaia - per le strutture di peccato, a cui  nessuno ha ancora davvero messo mano. Come scrive Jean Ziegler, informare, rendere trasparenti le pratiche dei padroni è il compito dell’intellettuale: ma il lavoro di quanti si impegnano in questo senso si scontra con una società civile e politica sempre più chiusa su se stessa, intrappolata nella sindrome sicuritaria, recalcitrante all’ascolto.

Come interpreti la decisione del Pd di “correre da solo”, la sua sempre più spiccata vocazione centrista e l'aspra concorrenza che ha stabilito con “La Sinistra-L’Arcobaleno”? Cosa succede nella sinistra italiana?

La sinistra italiana, ovvero quello che resta della sinistra italiana, si gioca in larga misura la sua stessa sopravvivenza. La sua scomparsa dal panorama politico e culturale è un rischio niente affatto banale. Ho già parlato del possibile astensionismo di matrice progressista, frutto della sofferenza e della disillusione dell’esperienza con il governo Prodi, ma frutto anche dell’incapacità di fare presa (ed in questo senso la candidatura di Bertinotti potrebbe rappresentare una scelta non necessariamente indovinata). Si tratta di un fattore che non può essere sottovalutato.

Poi dobbiamo confrontarci con una parte della sinistra che si trova ormai inesorabilmente irretita dall’energica sequenza della strategia veltroniana, e dal progetto trasversale del Partito Democratico. Inglobata - anche alla base - nel Pd come unica chance di rinnovamento e di riscatto della politica, dopo le chiare diagnosi e le puntute denunce sullo  scollamento tra politica e società. Ma questa è la compagine che, indicativamente, vuole rimuovere la stessa parola “sinistra” dai linguaggi, dalle scelte delle candidature, dalle proposte programmatiche. Qui si trova tutto, ed il contrario di tutto. Per molti, in verità, si tratta di un riposizionamento subìto e sofferto. Molti, invece, preferiscono votare il Pd in funzione puntualmente anti-berlusconiana: in difesa, più che per uno slancio proattivo. Altri ancora, infine, del Pd sposano l’idea del superamento del conflitto sociale in ragione della mancanza di cultura politica, ovvero sulla scorta dell’opportunismo del ricambio generazionale, che con dinamiche piuttosto discutibili ha fatto spesso cadere le candidature sulla testa del partito, in assenza di spazi di dibattito e di reale partecipazione dal basso. Fa da sfondo a questi ricollocamenti una pervasiva sindrome leaderistica che condiziona la sinistra nelle sue varie componenti con simbologie piuttosto eloquenti, più o meno aggressive: retaggio di un berlusconismo culturale che ha attecchito più profondamente di quanto non ci risulti gradevole pensare. (g. p.)

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