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Le nuove sfide: diritti, giustizia e modello sociale

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 9 del 24/01/2009

Si sono andate intensificando, negli ultimi tempi, le voci critiche nei confronti del volontariato. Voci che arrivano dall’interno (ad esempio, nel 2006, alla Conferenza nazionale del volontariato tenutasi a Napoli, il Mo.Vi presentò un documento che richiamava alla gratuità come valore fondante); dal mondo della ricerca (Giuseppe De Rita nel libro “Come siamo cambiati”, Edizioni dell’Asino, definisce “una tragedia” il terzo settore, e praticamente morto il volontariato); dal mondo della politica (nel pieno delle discussioni sui campi rom dei mesi scorsi, non è mancato chi ha accusato il volontariato di essere “inefficiente” nel lavoro di scolarizzazione).

Che ci siano problemi è indubbio. Che il volontariato sia moribondo, però, non è facile crederlo.

Stando all’ultima rilevazione Fivol (2006), in Italia ci sono 1 milione e 123 mila volontari, e oltre 35mila organizzazioni. Queste negli ultimi cinque anni sono aumentate di quasi il 19%. Le organizzazioni sono dunque più numerose, ma più piccole: nella maggioranza dei casi (53,2%) non superano i 20 operatori, ma il 33% delle organizzazioni si basa su non più di 5 volontari. È un dato da interpretare: si va verso un “volontariato dei presidenti e dei suoi amici”, molecolare e per questo debole e a forte rischio di clientelismo, oppure c’è un bisogno di cittadinanza attiva che si esprime “dal basso”, autoorganizzandosi?

Un altro dato da tenere in considerazione è che aumenta la presenza professionale nel volontariato organizzato. Sempre secondo la Fivol, le unità dotate di personale retribuito sono cresciute di 14 punti percentuali tra il ‘97 e il 2006 (ora sono 26 su 100). Anche su questo c’è una domanda: questo processo di professionalizzazione è un modo per rispondere a bisogni sempre più vasti e complessi, o è una degenerazione delle organizzazioni che, carenti di motivazioni e di capacità di coinvolgere risorse umane, devono ricorrere a persone a pagamento per perpetuare se stesse? In altri termini: il volontariato cresce o si sta aziendalizzando?

Ma uno dei problemi più gravi è quello del rapporto con gli enti e i servizi pubblici. La “Carta del volontariato” ribadisce con chiarezza che il volontariato ha un ruolo politico: essendo basato sulla gratuità e per questo libero da logiche di potere e da interessi economici, deve collaborare con le istituzioni e le amministrazioni nella ricerca delle risposte ai bisogni dei soggetti deboli, libero nella critica e nella denuncia, ma anche capace di proposta.

Negli anni il numero delle organizzazioni che hanno rapporti con le amministrazioni (sistematici od occasionali, formali o informali) è andato crescendo e negli ultimi anni varie leggi – nazionali o regionali – hanno riconosciuto il ruolo politico del volontariato, a partire dalla 328/2000, con l’istituzione, tra l’altro, dei piani di zona. Ma quelle che hanno una storia più lunga alle spalle hanno anche sperimentato quanto sia difficile non cadere in nuove forme di collateralismo o di dipendenza, e come, ad ogni cambio di amministrazione, ci si trovi nel migliore dei casi a ricominciare da capo, nel peggiore emarginati perché si aveva collaborato con l’amministrazione precedente.

Inoltre l’esperienza insegna che riescono a sedere ai tavoli dove si discutono le politiche sociali solo le grandi associazioni. Le 35 mila piccole organizzazioni spesso non hanno la voglia, la formazione, il tempo per fare tutto questo. Né hanno una forma di rappresentanza che faciliti, tra l’altro, il compito degli amministratori, i quali spesso faticano a capire chi è il loro interlocutore, dovendo confrontarsi con una molteplicità di soggetti a volte in concorrenza tra loro. Anche per questo, nel dicembre scorso, Csv.net (il Coordinamento dei centri di servizio) ha presentato a Roma la “Carta della partecipazione”, che contiene principi ispiratori, regole, indicazioni formative per le organizzazioni.

In conclusione, il volontariato è in crisi? Dipende da che cosa si intende per crisi. Io direi che, per sua natura, è in perenne cambiamento: ciò che conta è riuscire a tenere la rotta, fermarsi è la fine.

C’è anche un altro fatto di cui tenere conto: normalmente, negli studi statistici sul volontariato, non entrano la Caritas (perché la legge 264/91, nel definire il volontariato chiede il requisito della democraticità, quindi che la dirigenza sia eletta, non nominata) e moltissime piccole e piccolissime organizzazioni che fanno riferimento alle parrocchie o a territori molto delimitati e che sono difficilmente censibili. Insomma, probabilmente in giro c’è molto di più di quello che si riesce a fotografare.

Ma, forse, la sfida più grande per il volontariato oggi è culturale: occorre tornare a definire quali sono i diritti, che cosa è la giustizia sociale, che tipo di società vogliamo costruire, se esistono valori comuni su cui fondarla. In un momento di crisi economica, in cui le povertà si moltiplicano paurosamente, il volontariato deve trovare il tempo, oltre che di fare, anche di pensare.

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