Firenze Però non basta dire “sororità”...
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 60 del 30/05/2009
Nessuno potrà mai spiegare perché un incontro come questo non sia stato fatto trent’anni fa (a parte il fatto che molti – adulti quando si concludeva il Vaticano II – si lamentavano già allora del contenimento dello Spirito giovanneo operato da un Paolo VI troppo prudente nei confronti della curia). Anche se la chiesa non definisce mortali i peccati di omissione, dobbiamo – noi “vecchia generazione” – assumerci le nostre responsabilità. La Lumen gentium aveva dato autorevolezza ai laici, che non se la sono presa. Poi si sono succedute le generazioni che, via via, hanno assunto posizioni più o meno autonome, nel senso che dimenticano ogni significato del sesto comandamento, ma non si scandalizzano se il papa dà ordini al governo e, se arriva in parrocchia un vescovo, gli baciano l’anello: per l’istituzione è abbastanza per definirli buoni cristiani.
Questo è reso possibile dall’ignoranza sostanziale dei cattolici italiani per ciò che concerne la loro fede. E spiega perché i presunti contestatori di oggi facciano parte di gruppi di approfondimento biblico o di spiritualità e si rendano conto di questioni fondamentali, come la collegialità, solo perché finalmente qualcuno rilegge con loro i valori del Vaticano II. Così finalmente, arrivano a conoscerne l’apertura a un futuro che, dopo quarant’anni, sta premendo per avanzamenti ulteriori.
Bene, dunque, questo risveglio che, come dice p. Giannoni, non è “contro”, ma “per”. Bene, allora, riprendere a lavorare. Non sarà facilissimo, perché i linguaggi sono cambiati e l’argomentare richiede qualche cognizione più solida per diventare appetibile per i più giovani. Certamente i gruppi dovranno continuare i loro percorsi e mantenere e, anzi, moltiplicare i collegamenti di rete, mantenendo le loro specificità, ma facendosi sensibili allo spettro intero della problematica.
Per esempio, nei bellissimi interventi introduttivi era del tutto silente la questione della presenza delle donne in una chiesa androcentrica. Non basta dire “sororità” dopo fraternità o parlare di “nuova Eva” a continuazione con il nuovo Adamo. Il discorso clericale ha sempre parlato di “viscere materne”, di “doglie del parto” senza conoscenza reale dei fatti di cui parla. La sessuofobia è il dato di realtà che esclude la donna, come se ancora se ne conservasse introiettata l’impurità.
Bisogna riconoscere che la sola “novità” in filosofia è la rottura dell’aristotelismo dell’Uno prodotta dal femminismo. E bisogna leggere le teologhe, che analizzano questa fattispecie di violenza maschile che è il potere clericale, estraneo alle intenzioni di Gesù, di escludere il femminile dall’area del sacro. Nell’ambito clericale non è richiesta neppure quell’omologazione che è l’insidia principale della norma laica, disposta a cedere qualche “posto” di autorità alle donne in cambio dell’accettazione del modello unico. D’altra parte nessuna donna, neppure se consacrata, vorrebbe diventare “questo” prete.
Anche nell’ambito familiare è stupefacente che l’amore sia entrato nella sacramentalità del matrimonio solo con il Vaticano II: provate a spiegare ai giovani che prima c’era solo il “crescete e moltiplicatevi” e il remedium concupiscentiae (da dirsi in latino per non vergognarsi) e vedrete le reazioni. Dare riconoscimento al “genio femminile” per consacrarlo alla famiglia è ridurlo a un puro complimento galante. Anche le donne hanno ricevuto la grazia del Vangelo: se onorassimo la competitività per il potere, avremmo domandato da sempre “chi” è stata invitata ad annunciare la resurrezione ai fratelli rimpiattati in casa per la paura. Ma nessuno può dimenticare che, almeno per il futuro, siamo concretamente – per cultura, non per ragioni biologiche – “segno dei tempi”.
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