Somalia Critica di un disastro annunciato
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 69 del 20/06/2009
Centinaia di migliaia le persone in fuga dai combattimenti o perché non hanno cibo né acqua né cure mediche. Lo scontro interno sta assumendo una preoccupante dimensione internazionale.
Esistono le condizioni per mettere fine all’instabilità e al conflitto che imperversano dal 1991? Se ne è discusso a Roma nel Gruppo Internazionale di Contatto (GIC).
Nel rileggere le dichiarazioni delle precedenti riunioni del GIC si rimane colpiti dal divario tra la visione e l’azione internazionale e gli sviluppi della situazione in Somala. Alla vigilia del nuovo incontro ci si chiede se non siano stati proprio gli errori, le lentezze e omissioni della comunità internazionale ad avere contribuito al prolungamento della crisi somala.
Spettava alle Nazioni Unite guidare e sostenere il processo di transizione e di rafforzamento a livello centrale, regionale e distrettuale delle istituzioni. I due responsabili Onu che si sono succeduti, pur essendo funzionari di valore e con un ottimo curriculum, non sono riusciti a adempiere al loro mandato.
Anche la nomina del presidente Sharif Sheikh Ahmed, attraverso un percorso “unitario” guidato dall’Onu, ha portato alla formazione di un governo nato forte all’esterno ma con deboli possibilità di crescita in patria.
Non aver consolidato le istituzioni, specie a livello regionale, ha favorito l’espansione sul territorio degli Shabab, i giovani mujahidin. È stata sottovalutata sistematicamente la loro forza. Eppure dal primo maggio 2008, quando un improvvido missile statunitense uccise il loro capo militare, Aden Hashi Ayro, arrivò chiaro il segnale dell’inizio di una campagna in grande stile. Si sono susseguiti rapimenti, uccisioni, attacchi alle Agenzie e alle ong internazionali. Vi è stata una progressione impressionante di conquiste dei territori. Tutto in una generale sottovalutazione del problema, che è stato a lungo circoscritto a “criminalità sociale”.
Intanto questi “giovani” mujahidin sono cresciuti. Si sono divisi in gruppi territoriali e tribali autonomi. Si è discusso a lungo delle divisioni interne degli shabab e degli altri oppositori. Ma il collante del fanatismo ha posto rapidamente in secondo piano ogni elemento dialettico interno, facendo evolvere un iniziale processo di alleanza tattica (dal febbraio 2009 circa) in un’unione strategica che si è manifestata con un’offensiva risoluta dal 7 maggio.
Non si è ancora capito che si sta combattendo una guerra per l’anima stessa della Somalia: da un lato un movimento di conbattenti (tra cui numerosi stranieri) armati di una ideologia nazi-islamica che sostituirebbe i valori fondanti dei somali con un’organizzazione politica e religiosa che non ha alcuna radice nella società somala; dall’altra un governo che dovrebbe difendere i valori identificanti della tradizione clanica e religiosa, ma che è erede degli errori fatti dai suoi predecessori ed è identificato con i partner internazionali che questi errori li hanno spesso decisi e difesi. Non è una questione destinata a rimanere entro i confini somali: ciò che sarà la Somalia e le modalità con cui il suo futuro sarà definito avranno ripercussioni sull’intera area e altrove.
Quali potrebbero essere i punti chiave su cui puntare?
Si dovrebbe ripartire dal pieno coinvolgimento di tutta l’opposizione, escludendo solo chi manifestamente si richiama a pratiche qaediste o terroristiche. Ascoltare e capire le loro ragioni, per quanto politicamente arduo possa sembrare.
Un rinnovato e deciso impegno per la fine del conflitto etiopico-eritreo dovrebbe divenire una delle priorità di tutto il GIC per la Somalia, premendo in ogni sede con risolutezza e, se necessario, mettendo in discussione strategie e giochi geopolitici consolidati. Sarebbe importante inserire il tema nell’agenda del prossimo G8. Tale conflitto si sta combattendo infatti anche attraverso la Somalia e, finché non cesserà, i due paesi continueranno ad essere parte del problema somalo e delle sue divisioni.
Le posizioni più politiche, con una prevalente visione nazionalistica, ancora presenti sia in alcuni gruppi shabab che nell’Hisbul Islam (altra forza politica islamica radicale), dovrebbero essere maggiormente ascoltate, prima che scompaiano del tutto con l’incalzare degli eventi, per cercare di capirne le ragioni e cogliere indicazioni utili. A meno di volere puntare innanzitutto, ancora una volta, sull’uso della forza e creare un altro Afghanistan.
Una di queste posizioni puntava su una soluzione politica, tutta somala e non guidata o imposta dall’esterno. Anche se può apparire utopica o nascondere la volontà di ribaltare le influenze esterne, tale posizione andrebbe presa in considerazione. In Somalia non può più essere esclusa alcuna opzione politica, anche quando potrebbe portare a soluzioni impensate e ritenute impossibili.
Il processo di transizione dovrebbe avere l’obiettivo di far nascere nuove istituzioni che includano quanti ne sono finora rimasti estranei, accettate da tutti i somali e definitive, isolando ed escludendo solo i gruppi realmente estremistici e legati al terrorismo.
La comunità internazionale dovrà fare di più, ma dovrà lasciare l’iniziativa politica ai somali, dando loro fiducia, limitandosi ad appoggiarli fortemente e decisamente nella loro ricerca di unità.
L’Italia è ancora considerata in Somalia e a livello internazionale come Paese di riferimento. Anche se negli ultimi anni il ministero degli Esteri ha cercato di sostenere il difficile processo di transizione, è mancata un’azione coordinata a livello ministeriale e la traduzione in regolari impegni da realizzare attraverso azioni di aiuto e di cooperazione, per rafforzare le istituzioni.
L’Europa stessa avrebbe potuto avere un ruolo significativo per favorire decisioni sulla situazione somala. Un inviato speciale plenipotenziario avrebbe potuto far parlare l’Ue con una sola voce.
Occorre ora far di tutto, percorrendo strade nuove, affinché non siano solo le armi e il fanatismo a determinare il futuro della Somalia.
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