“LA PROFEZIA CHE VIENE DALL’AFRICA”. A FIRENZE, UN CONVEGNO FA IL PUNTO DOPO IL SINODO
Tratto da: Adista Notizie n° 21 del 13/03/2010
35488. FIRENZE-ADISTA. È trascorso troppo poco tempo dalla conclusione della II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre 2009) per poter azzardare le prime valutazioni circa gli effetti sulle conferenze episcopali regionali africane e sui singoli contesti ecclesiali. Questa la convinzione, largamente condivisa tra i relatori, emersa dal convegno “La profezia che viene dall’Africa. Sfide, risorse e ricadute del recente Sinodo”, fortemente voluto dai Missionari comboniani di Firenze, tenutasi nel capoluogo toscano lo scorso 1 marzo. Ciononostante, si è detto nel corso dell’incontro - organizzato in collaborazione con la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e con il Centro Missionario Diocesano - occorre mantenere alta la guardia e continuare a parlare di Africa e di Chiesa africana, argomenti questi particolarmente avvezzi a finire nel grande dimenticatoio dell’informazione e dell’opinione pubblica, anche cattolica.
Il convegno ha così rispolverato alcune delle istanze sinodali e, a partire da queste, ha tentato di tracciare le possibili vie di innovazione del dibattito teologico ed ecclesiale in Africa. Intorno al tavolo degli oratori, dopo i saluti di rito del preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale Stefano Tarocchi e del vescovo della città mons. Giuseppe Betori, si sono alternati gli interventi del card. Peter Kodwo Appiah Turkson (presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e relatore generale al II Sinodo per l’Africa), Gianni Colzani (docente di Missiologia all’Urbaniana di Roma e unico “esperto” italiano al Sinodo), Godfrey Igwebuike Onah (vice rettore dell’Urbaniana, presente al Sinodo in qualità di esperto) e Paolo Beccegato (responsabile Area Internazionale della Caritas Italiana, convocato al Sinodo come “uditore”), moderati dal teologo e docente Andrea Bellandi.
La teologia che non tocca la vita è ideologia
Nonostante l’argomento e la presenza predominante dei vescovi africani al Sinodo, ha detto il card. Turkson, quello che abbiamo vissuto “non è stato un Sinodo ‘africano’, ma un Sinodo della Chiesa universale ‘per’ l’Africa”. Prima di cantare vittoria sui risultati, ha affermato però il cardinale, occorre ricordare che l’ultima parola spetta sempre al papa, “visto che sarà lui l’autore dell’Esortazione”. Turkson ha poi tracciato il cammino della Chiesa d’Africa negli anni tra il primo e il secondo Sinodo, evidenziando che il contesto sociale, economico e politico del continente è molto cambiato. Inoltre, se nel 1994 le speranze di riscatto del Continente sembravano davvero poche, oggi si è presa coscienza del fatto che “l’Africa non è un’entità monolitica, ma un Continente con diversi Paesi”, 48 solo quelli subsahariani, ognuno dei quali ha una personale storia di fallimenti e di successi che vanno entrambi evidenziati, per abbattere gli stereotipi che accompagnano spesso una “presentazione non certo positiva che l’Africa ha sempre dovuto sopportare”. Anche la Chiesa ha superato – ha detto con forse eccessivo ottimismo il cardinale – il suo tradizionale pregiudizio eurocentrico: durante il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e Angola per la consegna dell’Instrumentum laboris (17-23 marzo 2009), “il papa ha constatato la maturità delle comunità ecclesiali africane” e ha ‘scoperto’ che “la celebrazione danzata è espressione di fede e gioia, e il corpo porta assistenza all’anima. Il papa, insomma, ha riconosciuto la forte presenza del sacro in questo rituale”. Se “il primo Sinodo ha formulato l’identità della Chiesa africana”, ha poi aggiunto Turkson, “il secondo Sinodo ne ha disposto la missione”. La Chiesa che emerge dalla Seconda Assemblea, ha aggiunto, “è la forma del Regno di Dio sulla Terra, come entità storica e sociale”.
Il compito dei vescovi, dunque, è ora quello di “trasformare la teologia in pastorale e tradurre le Scritture nella vita delle persone nella società” perché, “se la teologia non tocca la vita della gente, diventa ideologia”. Da qui, appunto la missione della Chiesa in Africa e nel mondo: “Ristabilire la giustizia e servire la pace”.
Non si può separare il cielo dalla terra
Due gli elementi problematici al centro della riflessione di Colzani su “Aspetti storici e impatto teologico del Sinodo”. Innanzitutto, “il paradigma di riferimento del cammino ecclesiale” degli ultimi quindici anni – “Chiesa famiglia di Dio” – che, stando a quanto ha affermato il docente, non è statico ma si dimostra in divenire, per rispondere alle nuove sfide del Continente e della missione ecclesiale in Africa. “L’immagine patriarcale della famiglia fondata sull’autorità paterna – ha spiegato infatti Colzani – favorisce una visione della convivenza familiare in linea con le tradizioni claniche del passato ma lontana dalla fraternità cristiana. Da qui l’esigenza di un migliore equilibrio” nel paradigma “Chiesa famiglia di Dio”, forse meglio declinabile in “Chiesa fraternità di Dio”.
Secondo nodo affrontato dalla relazione, la “concezione cristologia” della riconciliazione, la quale, ha spiegato il missiologo, “non resta confinata nel disegno divino considerato isolatamente, ma entra nelle relazioni tra Dio e le persone e nelle dinamiche che legano queste tra loro modificandole; la riconciliazione è così un processo dinamico, un compito da intraprendere, uno sforzo da riprendere per ristabilire l’amore e la misericordia, la fraternità distrutta e la confidenza fraterna”. A partire da un tradizionale approccio ‘sacramentale’ alla riconciliazione, con questa importante operazione, il Sinodo per l’Africa “ha messo l’accento sull’impegno sociale ed ha in più modi richiamato la necessità di una spiritualità che animasse quel cammino”. Colzani ha poi sottolineato il minor coraggio espresso dalle Propositiones finali, che riconducono questo slancio iniziale ad un “quadro esclusivamente ecclesiologico”, mentre “l’attenzione alla testimonianza sociale perde molto della forza espressa durante il Sinodo”. “Il Sinodo – ha chiarito infatti – non esigeva solo che il ministero riconciliatore della Chiesa trasformi i cuori e la vita delle persone, ma anche che la Chiesa sappia camminare in un mondo violento custodendo profeticamente, e proponendo evangelicamente, l’alternativa di un mondo amato dal suo Signore”.
Il lungo viaggio dalla capanna del colloquio a Roma
Il Sinodo è stato un luogo di sereno ascolto e di attenzione reciproca, proprio come avviene nella “capanna del colloquio, luogo della palabre africaine, dove gli anziani si radunavano e, gomito a gomito, affrontavano vari temi che riguardavano la vita della comunità”. Questo metodo di risoluzione dei problemi comuni è sempre più estraneo alle nuove generazioni africane, perché “i villaggi si sono quasi svuotati e la cosiddetta democrazia” importata dall’Occidente “ha sostituito gli anziani della capanna con dei parlamentari che, il più delle volte, rappresentano solo i loro interessi economici e quelli dei loro amici”. A un Sinodo però, ha poi avvertito Onah, non si possono affidare le grandi aspettative di un rapido cambiamento. In quanto assemblea esclusivamente consultiva, a differenza del “rituale africano della parola”, non offre infatti soluzioni a problemi concreti, ma “piste di ricerca e di approfondimento”. Eppure, ha spiegato infine, è difficile per un vescovo africano tornare nel suo Paese e non sapere cosa rispondere alla domanda: “Padre e vescovo, che cosa avete deciso?”.
Onah ha poi ribadito un concetto emerso in diverse occasioni durante e dopo il Sinodo: nonostante la grande presenza in Africa di Ong e di organismi umanitari impegnati per la riconciliazione, e nonostante la sua rilevanza per l’Africa e per il mondo, “il Sinodo sulla riconciliazione, giustizia e pace è stato paradossalmente ignorato dai media mondiali”. Eppure, ha concluso il teologo con un proverbio africano, ricordando la portata globale del Sinodo e dei problemi africani, “Quando una scimmia ha la tosse, ne soffre anche l’albero su cui si posa”. (giampaolo petrucci)
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