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Riforma sanitaria Usa Le Chiese tra salute e salvezza

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 27/03/2010

Nel periodo d’oro degli Stati Uniti, a metà Novecento, Hollywood era il simbolo globale del sogno americano. All’inizio del secolo XXI, il posto di Hollywood è stato preso, nell’immaginario collettivo, dal sistema sanitario più ineguale e ingiusto al mondo: al sogno si è sostituito un incubo, da cui il Paese prova a svegliarsi, varando una riforma capace di togliere gli Stati Uniti dalla scomoda posizione di unico, tra i Paesi sviluppati, che non offre assistenza medica ai suoi cittadini. Ai cittadini statunitensi che non hanno un’assicurazione sanitaria (46 milioni nel 2008), vanno aggiunti tutti i “sotto-assicurati”, quelli cioè con copertura parziale.

Negli ultimi anni poi il potere di acquisto dei salari è diminuito non per una contrazione dei livelli di retribuzione, ma per un’espansione senza controllo dei costi delle cure mediche e quindi delle assicurazioni (l’8-10% delle entrate di una famiglia media). Nel giro di pochi anni il mantenimento del sistema attuale condurrebbe una quota enorme e crescente della ricchezza dello Stato (ora il 18%) e delle famiglie ad essere risucchiata dalla spesa sanitaria, e ad un deficit insostenibile nei bilanci federali. A metà marzo 2010 non è ancora chiaro quale sarà il destino della riforma sanitaria. Obama ha dovuto ridimensionare drasticamente le promesse fatte durante la campagna elettorale, per le divisioni interne al Partito Democratico più che per l’ostruzionismo dei repubblicani, ormai preda degli estremisti isolazionisti (Sarah Palin) e delle frange razziste e “nativiste” (guidate dai tribuni mediatici Rush Limbaugh e Glenn Beck).

In un sistema in cui tutti – repubblicani e democratici – sono d’accordo nell’accettare il concetto di malato come “cliente” e di cura medica come “prodotto”, le Chiese Usa avrebbero potuto giocare un ruolo essenziale denunciando un’idea di sanità in cui il concetto di “bene comune” è stato sommerso dall’ondata mercatista e privatizzatrice evangelizzata da Reagan prima, avallata da Clinton poi, e infine ideologizzata da G. W. Bush. Ma le Chiese cristiane hanno giocato una partita completamente diversa. Le grandi ma ormai minoritarie Chiese del protestantesimo mainline (Chiesa episcopaliana, evangelica luterana, e metodista) hanno provato a far sentire la loro voce in favore della riforma, insieme ad organizzazioni ebraiche, islamiche e buddhiste, con una lettera indirizzata al Congresso il 26 gennaio. Le floride Chiese pentecostali ed evangelical di vecchio stampo, invece, si sono per lo più esentate dalla questione, preda come sono ormai del Prosperity Gospel – quella interpretazione “psico-economica” del cristianesimo secondo la quale se Dio ti ama, ti riempie le tasche di soldi. Le Chiese evangelical di nuovo conio invece si impegnano sempre di più sul fronte sociale, ma sotto forma di attività di volontariato caritatevole, che non interpella più di tanto la coscienza e il comportamento politico dei cristiani (non a caso sono collocate nelle aree più ricche del Paese).

Un caso a parte è quello della Chiesa cattolica, che fin dall’inizio di questa lotta di Obama per la riforma sanitaria ha spinto su due punti - la copertura sanitaria per gli immigrati e il mantenimento della legge che impedisce qualsiasi contributo di denaro pubblico all’aborto - e ha più o meno taciuto sulla necessità di un sistema sanitario che dia “copertura universale” a tutti, al di là del reddito. Il punto della copertura sanitaria per gli immigrati è presto caduto nel dimenticatoio, sovrastato dal secondo punto, quello dell’aborto, attorno al quale ruota non solo la gran parte del magistero morale della Chiesa, ma anche la politica americana. La vittoria dei vescovi, che col lobbying del novembre 2009 erano riusciti a far imporre alla legge in discussione alla Camera un articolo restrittivo sull’accesso all’aborto, rischia così di trasformarsi nella sconfitta della riforma sanitaria. Dopo l’intervento del presidente dei vescovi Usa, il cardinale di Chicago Francis George, che il 15 marzo ha formalmente annunciato l’opposizione dei vescovi alla proposta di riforma sanitaria (e circa 59mila suore favorevoli hanno subito dichiarato il loro dissenso dai vescovi), al momento tutte le speranze sono nella possibilità che la Camera voti il progetto varato dal Senato: la legge di riforma è nelle mani di una pattuglia di democratici che  potrebbe essere disposta a far fallire una legge che coprirebbe milioni di americani finora non assicurati, ma che considerano più “liberale” della legge della Camera per quanto riguarda l’accesso all’aborto, sebbene le differenze tra i due progetti di legge siano considerate meramente linguistiche (entrambi confermano il divieto dell’uso di fondi federali per il finanziamento di pratiche abortive). 

Alcuni dati emergono chiaramente. Dal punto di vista dell’equilibrio politico-confessionale, è evidente che il Partito Democratico negli ultimi anni è riuscito ad imbarcare parte dell’elettorato cattolico, ma non quell’elettorato cattolico che vede la questione pro-life come decisiva per la sua collocazione politica. Il vecchio allineamento di inizio-metà Novecento tra il Partito Democratico (quello del New Deal di Roosevelt) e il cattolicesimo sociale americano (quello di mons. John Ryan) è stato definitivamente rovesciato in seguito all’emergere delle questioni della “vita”, che ha spinto buona parte dei cattolici tra le braccia del Partito Repubblicano. La sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade del 1973 (una delle sentenze più “radicali” nella storia della giurisprudenza della Corte, che ha reso legale l’aborto in quanto questione attinente al “diritto alla privacy”) e i numeri spaventosi delle interruzioni di gravidanza in America (600mila nel 1973, il picco di quasi un milione e mezzo nel 1990, attorno agli 800mila all’anno nel quinquennio 2004-2008) hanno sconvolto il posizionamento morale dei partiti e il comportamento elettorale dei credenti, senza però avere effetti positivi sulla piaga sociale dell’aborto, che il discorso politico americano riconduce sempre alla “responsabilità personale” senza mai considerare le “responsabilità sociali” che facilitano o spingono a quella scelta.

Dal punto di vista dell’equilibrio interno alla Chiesa cattolica, è evidente la spaccatura tra un laicato fermamente repubblicano e pro-life da un lato e un laicato liberal dall’altro, e la spaccatura tra il laicato liberal e i vescovi. I vescovi, dal canto loro, sono sempre più uniti sulla questione dell’aborto, benché reduci da un ventennio di appoggio ad un Partito Repubblicano che ha mancato tutte le sue promesse di lotta “per la vita”. La delusione patita dai vescovi non sembra averli condotti su una strada diversa (spesso ‘organica’ al Partito Repubblicano). Solo alcuni gruppi liberal interni alla Chiesa cattolica americana, come la “Catholic Alliance for the Common Good”), hanno convintamente difeso il progetto di riforma sanitaria di Obama nella direzione di un avvicinamento ad una “copertura sanitaria universale” e di un congedo da un sistema finanziariamente insostenibile e moralmente inaccettabile.

Nella situazione americana attuale torna utile l’interpretazione di Ivan Illich in Nemesi medica (del 1975), secondo cui l’uomo contemporaneo ha sostituito l’aspirazione alla “salvezza” con quella per la “salute”. La separazione tra Stato e Chiese spiega le difficoltà di inserire il governo federale nel sistema di organizzazioni che si occupano della salvezza-salute dei credenti-cittadini contribuenti. Come avevano rifiutato un’unica Chiesa di Stato che mediasse tra il singolo e il Creatore ai fini della salvezza dell’anima, così ora gli statunitensi sono riluttanti nell’affidare la propria salute fisica ad un medico pagato dallo Stato. Non accettano interferenze e mediazioni: né tra salvezza e credente, né tra medico e paziente. La proverbiale diffidenza del popolo americano verso “il governo” è solo un elemento delle ostilità verso una riforma del sistema sanitario che veda lo Stato offrire anche solo qualche elemento di copertura sanitaria a quanti ne sono privi.

Sia le Chiese politicamente disimpegnate, sia quelle (come la Chiesa cattolica) assai attive sul piano politico-parlamentare sembrano difendere un’agenda interna e non essere capaci né di denunciare né di rassicurare sullo stato del patto nazionale, di cui le Chiese americane sono sempre state protagoniste ed interpreti grazie alla loro capacità di essere counter-cultural, contro-culturali e profetiche. Per riprendere la metafora sanitaria, sembra che le Chiese americane si siano arrese alla malattia della politica contemporanea americana, sempre più individualista, anti-statale e anti-sociale. Nella loro riluttanza a difendere l’idea di “bene comune” e di “copertura sanitaria universale” (elementi integranti della dottrina sociale cattolica) emerge l’incapacità delle chiese cristiane americane di parlare alla cultura di un paese, gli Stati Uniti, che ha la sensazione di essere avviato sul viale del tramonto.

* Docente di Storia del Cristianesimo, dipartimento di Teologia, University of St. Thomas (Minnesota)

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