Noi e le divisioni a destra
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 40 del 15/05/2010
Il conflitto aperto da Fini dentro la maggioranza fa leva su questioni politiche di tutto rispetto che non possono essere derubricate a ragioni di stampo personalistico: l’egemonia politico-culturale della Lega sulla destra al governo, il vistoso deficit di democrazia interna al PdL, le sistematiche offese al principio di legalità, la mortificazione del Mezzogiorno, le insidie portate all’unità nazionale, le riforme economiche e sociali promesse e puntualmente disattese. Tuttavia, non ci commuoviamo per Fini. Chi è causa del suo mal pianga se stesso: possibile che solo ora Fini, dopo sedici lunghi anni di coabitazione, scopra che Berlusconi è Berlusconi e Bossi è Bossi? Perché si è fatto annettere a Forza Italia dopo avere bollato con l’epiteto di “comiche finali” il partito del predellino? Ciò detto, non vorrei essere frainteso. Le divisioni a destra non ci lasciano indifferenti. Per tre ragioni: 1) è nell’interesse superiore della democrazia italiana disporre di una destra “normale”, non di marca aziendalistico-populista, ma assimilabile alle moderne destre liberal-conservatrici europee; 2) la cancellazione della democrazia interna ai partiti, non a caso prescritta in Costituzione dall’art. 49, non è “affar loro”, essa rappresenta un virus che ammorba il sistema democratico nel suo complesso (vogliamo dirlo? è avvilente ed allarmante lo spettacolo di un personale politico facilmente comprato e venduto, sotto padrone e sotto ricatto, quello di un’informazione militarizzata e di una legge elettorale che mette nelle mani del capo la sorte nominativa di ciascun parlamentare); 3) ora, dopo trent’anni di chiacchiere vacue e stucchevoli intorno alle cosiddette riforme, si dà per davvero la concreta possibilità di uno stravolgimento dei principi e degli equilibri sui quali si impernia la nostra Costituzione. Con il passaggio da una democrazia costituzionale a un regime autocratico e populista. Magari scambiando un presidenzialismo senza bilanciamenti con un federalismo separatista. Una posta alta, una partita difficile che si giocherà prima in Parlamento e, poi, prevedibilmente, in un referendum costituzionale confermativo. Le divisioni che si potrebbero aprire dentro l’attuale maggioranza parlamentare possono giovare al fine di scongiurare quella minaccia concreta e incombente.
Nel Pd si riesce a fare confusione e a litigare anche quando le cose sono chiare. Già prima della apertura del conflitto tra Fini e Berlusconi, e non a valle di esso, Bersani aveva proposto un “patto repubblicano” e qualcuno ha puntualmente equivocato, paventando manovre trasversali e illusioni circa il “compagno” Fini. Per me le cose sono semplici: Fini rappresenta un interlocutore e, insieme, un avversario. Un interlocutore se e nella misura in cui – ma ancora lo dobbiamo vedere, alla prova di passaggi parlamentari cruciali – egli si opporrà agli strappi del nostro tessuto costituzionale. Su questo fronte ogni contributo è apprezzabile e ben accetto; ma Fini resta un uomo di destra, un avversario del centrosinistra per quanto attiene alle alleanze politiche e alla competizione per il governo. È la debolezza del centrosinistra e la sua insicurezza di sé che inducono taluni suoi rappresentanti a non distinguere i due diversi tavoli di confronto: quello costituzionale e delle regole da quello politico e dei programmi. Così da percorrere la via maestra e virtuosa che corre tra il politicismo di oscure manovre trasversali e il settarismo di chi quasi si dispiace se a destra si aprono contraddizioni.
Già parlamentare del Pd, presidente dell’Azione Cattolica Ambrosiana e dell’associazione Città dell’Uomo
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