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ROMPETE L’ASSEDIO

Tratto da: Adista Documenti n° 51 del 19/06/2010

Ho aspettato tre giorni per scrivere, perché è questo che Israele cerca da me: l'istinto e il rancore. Mi hanno confiscato la casa, la storia, la terra, metro a metro; la libertà, intrappolato in labirinti di arbitrarietà e divieti; mi hanno confiscato la sicurezza, questa notte che, come ogni notte, forse travolgeranno all’improvviso questa porta per arrestarci senza ragione; e fino all'ultimo dei nostri diritti - perché possono confiscarci tutto, e lasciarci consumare di cancro a un checkpoint, ma non possono confiscarci la nostra umanità. La nostra immunità.

Ho aspettato tre giorni perché è questo, e solo questo, che Israele cerca da noi: la violenza e la reazione. Cerca la guerra, perché in guerra vince chi è più forte, e non chi ha ragione. So che diciamo resistenza, qui, e voi sentite terrorismo. Ma abbiamo imparato a opporre a Israele non la nostra disperazione, ma la nostra bellezza e tutta Hannah A-rendt; contro il loro nucleare, non razzi di latta, ma dignità, fermezza e ostinazione; contro i loro insediamenti, i nostri studenti che nonostante tutto studiano; contro i loro bombardamenti, la nostra vita che nonostante tutto vive. Cerca l'attacco, l'esplosione, Israele, per sguainarci contro la retorica dell'autodifesa. Ma la nostra resistenza è quello che accade ogni venerdì a Bi'lin e Ni'lin e sempre più ovunque: è il boicottaggio dei prodotti dei coloni, sono le sanzioni economiche, è la sentenza della Corte di Giustizia sull'illegalità del Muro e sull'obbligo di abbatterlo, è il Rapporto Gold-stone ed è la giurisdizione universale, come avvenuto a Londra contro Tzipi Livni. La nostra resistenza è mille cose e, soprattutto, mille internazionali. Con noi non solo per solidarietà, ma per giustizia: sono quelli che hanno capito che non chiediamo elemosina, rivendichiamo diritti; che quella di Gaza non è una crisi, ma un assedio. Quelli che non spianano il dialogo sradicando via le responsabilità, perché la pace non è la quiete del più forte, la coesistenza tra schiavi e padroni, e la normalità non è Oslo, non è la normalizzazione. Quelli che vengono respinti dalla polizia del pensiero alla frontiera dell'unica democrazia del Medio Oriente, perché la guerra ha bisogno di indifferenza per di-ventare guerra, ha bisogno di racconto per diventare crimine, voce e luce. “Il luogo da cui arrivo era formato da tre semplici categorie: gli assassini, le vittime, e quelli che rimanevano a guardare” - quelli che vengono uccisi solo per non ritrovarsi addosso, un giorno, le parole di Elie Wiesel.

Ho aspettato 3 giorni e 43 anni, e quello che ogni volta più mi colpisce, ancora, non è quello che Israele fa, ma quello che le si consente di fare. Perché questa non è solo una battaglia per la terra, ormai: è una battaglia per il diritto internazionale. Per un mondo in cui non sia possibile violare impuniti le più basilari regole di convivenza: assaltare, assassinare, arrestare, sequestrare, e ovunque e chiunque, e senza freno: perché un mondo in cui si rimane disoccupati in Francia per mutui non pagati in Finlandia, un mondo in cui si è uccisi per quello che si decide a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, non può funzionare se chi è forte abbastanza da agire semplicemente agisce. L'arrembaggio alla nostra dignità è l'arrembaggio alla vostra sicurezza. Il diritto non è il lusso di chi non vive assediato da nemici, non è una restrizione che mina la sopravvivenza, ma la saggezza che libera dallo stato di emergenza. Ed è il diritto internazionale, non l'antisemitismo, a accusare che tutto questo è apartheid, a sancire che tutto questo deve finire - e come altro definirlo un Paese in cui non esiste la cittadinanza, ma solo la nazionalità; un Paese in cui mi è vietato guidare in una certa strada o entrare in una certa città, e comprare una casa, e solo perché non sono ebreo; un Paese in cui, a parità di reato, per me la pena è maggiore?

Ho aspettato tre giorni per scrivere, perché, come dopo Sabra e Chatila, ho aspettato 400mila israeliani pretendere in piazza una commissione di inchiesta contro un governo che sguinzaglia i suoi corsari a affondare il proprio Paese. Ho aspettato 400mila israeliani denunciare un'occupazione che sa raggiungere con una strada anche mezzo colono sulle più sperdute colline e poi lascia solo un anziano su cinque, costretto a scegliere tra cibo e medicine; ho aspettato 400mila israeliani rivendicare che libertà non è autosufficienza, ma integrazione, e l'Altro non un sospetto agguato, ma l'oppor-tunità della contaminazione. E ho aspettato, al solito, come aspettando Godot, 400mila israeliani rompere questo assedio, evadere da questo ghetto in cui l'ipocondria è l'unica forma di salute, e gli emigrati sono ormai più degli immigrati. E perché non sono io, qui, il prigioniero. Io non vivo dietro un Muro. Non ho mai definito la mia identità in negativo. Un israeliano, dopo sessant'anni, ancora non è che un non-arabo. E la mia Palestina, invece, è smisurata ricchezza: ricchezza di persone, di relazioni: non di contrapposizioni. Io ho fiducia, nella vita, non paura: io sono libero.

Ho aspettato tre giorni per scrivere e come sempre non ho sentito che dire che questo attacco è stato controprodu-cente. Solo questione di pubbliche relazioni: non etica ma strategia. Tre giorni e quarantatré anni, metro a metro, una Bibbia per atlante, non ho visto Israele che tentare di convertire la religione in geografia. Metro a metro, perdere per strada la saggezza dei suoi padri spirituali: perché Dio abita, avvertiva Martin Buber, solo dove lo si lascia entrare.

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