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Manovra: conta il messaggio o il contenuto?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 53 del 26/06/2010

Le manovre economico-finanziarie non incontrano mai, in genere, il consenso di tutti. Ma la manovra contenuta nel decreto-legge n. 78 del 31 maggio scorso mi sembra particolarmente problematica e sarebbe buona cosa se ognuno rinunciasse al proprio orgoglio e la discussione parlamentare, senza forzature, riuscisse a migliorarla. Vediamo perché.

La ragione principale sta nella contraddizione tra il contenuto della manovra e il messaggio che contestualmente viene trasmesso agli italiani. Faccio tre esempi.

1) È certo buona cosa che, invertendo la direzione intrapresa con lo scudo fiscale (un premio all’evasione), la manovra contenga incentivi ai comuni per la lotta all’evasione e per un maggior impegno nell’accertamento. Ma occorre che, contestualmente, lo stesso messaggio positivo nei confronti del fisco e del significato solidaristico della tassazione provenga dalle persone che ricoprono gli incarichi al vertice dell’esecutivo. Così non è. Qui il contenuto è buono, il messaggio no.

2) Il decreto-legge prosegue nella politica dei cosiddetti tagli “lineari”, caratterizzati dalla fissazione di percentuali rigide e uniformi di riduzioni di spesa. Così si toglie in pari misura a chi produce e a chi sperpera. Si finisce per premiare le inefficienze e penalizzare i comportamenti virtuosi. A fronte di ciò il messaggio invece insiste (talvolta anche in modo demagogico) su merito, performance, responsabilizzazione. Qui il messaggio è, almeno in parte, buono; il contenuto no.

3) La manovra taglia i bilanci regionali in modo secco, sino all’azzeramento della parte di spesa regionale non vincolata. Il messaggio ossessivo di questi anni è però il cosiddetto federalismo, che dovrebbe soprattutto responsabilizzare i territori. Cosa impossibile se viene meno la possibilità materiale di una politica di bilancio. Qui, ancora una volta, c’è dissociazione tra messaggio e contenuto: il primo potrebbe essere accettabile (ove chiarito e riportato al suo significato etimologico); il secondo è da evitare.

Se messaggio e contenuto non si incontrano, il risultato è che invece di concorrere quanti più cittadini possibile a uno sforzo comune, si continuerà a ritenere che le imposte le deve pagare il vicino, che impegnarsi o lasciarsi andare è la stessa cosa, che federalismo significhi egoismo di singoli, gruppi, territori e non un patto comune di crescita e sviluppo. Se poi a tutto questo aggiungiamo il diversivo della discussione sull’art. 41 della Costituzione (ritenuto, senza alcun fondamento, responsabile delle inefficienze e dei ritardi italiani: ma un maggior controllo pubblico sull’economia non è la lezione che ci è venuta dalla crisi mondiale?), è difficile non pensar male: che dietro all’esaltazione della libertà e della concorrenza vi siano soltanto gli appalti in deroga, le cricche e le furbizie di pochi. E la solidarietà muore, come parola e come pratica.

Una battuta sul metodo. Un decreto-legge zeppo di norme e normette non è il miglior veicolo di una “manovra”. La legislazione troppo abbondante e caotica favorisce i soliti furbi e produce inefficienze. Anche su questo bisognerebbe meditare.

“Più legge, meno leggi”, scrivevano i vescovi italiani quasi vent’anni fa in un felice documento dal titolo Educare alla legalità: la sua ripresa e aggiornamento potrebbe essere una bella traccia per la politica di oggi, perché diventi capace di rimettere insieme messaggi buoni e contenuti adeguati.

Professore ordinario di Diritto costituzionale (Università del Piemonte Orientale) e presidente nazionale del Meic dal 2002 al 2009

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