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Il codice del "disonore"

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 9 del 10/03/2012

Nessun “codice d’onore”: i clan mafiosi le donne le uccidono eccome. In poco più di un secolo sono 150 le donne ammazzate dalle mafie. Oggetto di vendette trasversali, troppo impegnate politicamente, incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire. È su di loro che si concentra il dossier Sdisonorate, realizzato dall’associazione antimafie daSud, attiva dal 2005.
Oltre alle loro storie lo studio ci presenta molteplici contributi: un’intervista a Rita Borsellino e Angela Napoli, un saggio su “Madri e figlie” di Anna Puglisi e Umberto Santino del centro di documentazione Peppino Impastato, la postfazione della studiosa Ombretta Ingrascì. Del dossier, presentato il 24 febbraio scorso presso la sede nazionale dell’associazione a Roma, pubblichiamo ampi stralci della prefazione di Celeste Costantino (per informazioni o prenotazioni scrivere a info@dasud.it).

L’impero economico che le cosche mafiose sono riuscite a realizzare è frutto di una coercizione criminale che trova origine e spazio dentro comunità chiuse, in tessuti sociali capaci di accogliere in maniera deformata concetti come l’onore, il rispetto, la fedeltà. Qualcuno – non senza ragione – potrebbe definirle “comunità arcaiche” e, in alcuni casi, di provincialismo spinto. Sicuramente questa espressione è più che appropriata, ma non è sufficiente. In realtà infatti l’“arcaico” investe anche la modernità e la contemporaneità.

Ed è qui che entra in gioco il soggetto/oggetto femminile. Le donne in maniera trasversale rappresentano quell’elemento di “normalizzazione” e nello stesso tempo di “eccezionalità” che caratterizza il fenomeno criminale. L’esempio più lampante è la vendetta. Le donne per le mafie sono causa ed effetto, ma sono anche fonte di giustificazione e occultamento. (…) la maggior parte degli omicidi volontari fatti sulle donne sono stati causati dalla vendetta nei confronti di padri, fratelli, mariti.

Il torto subito in un contesto che non le riguarda direttamente: la guerra tra cosche per il controllo del territorio, lo sgarro perpetuato tra boss o affiliati, affari economici irrisolvibili se non attraverso il sangue, trovano l’apice della soddisfazione e del risarcimento colpendo donne e bambini. Cioè attraverso l’oggetto più importante del possesso. Questa dimensione vendicativa trae spunto dalla condizione storica femminile, dalla concezione familistica e dal patriarcato sociale. Colpisco la “cosa” che ti è più cara e simbolicamente, per questo motivo, quella che non andrebbe mai colpita. È lo sfregio più grosso da ricevere e anche il più infamante da commettere. Infatti per lungo tempo le mafie, nell’immaginario collettivo, seguivano un “codice d’onore” che impediva di colpire proprio  donne e bambini.

Specularmente come fintamente si pregiano del “codice d’onore” che non tocca le donne, dichiaratamente mettono in atto il “delitto d’onore” che è rivolto solo alle donne. È del tutto naturale e non desta alcuno scalpore uccidere per lavare la macchia del tradimento. Un tradimento che non deve essere necessariamente di natura sessuale, ma può essere anche quello avvenuto attraverso la denuncia di un mafioso o, addirittura, l’istigazione alla denuncia messa in atto nei confronti di qualcuno del clan, tentando di convincerlo a pentirsi. E non desta scalpore neppure uccidere per via dell’offesa alla “morale della famiglia” come, per esempio, una relazione extraconiugale da parte di una figlia, di una sorella o comunque una donna associata in qualche modo a un clan. O, ancora, una relazione con una persona che non si piega alla logica della famiglia. Per questo oltre alle mogli e alle fidanzate, dentro la categoria del “delitto d’onore”, si possono inserire anche le figlie o le sorelle.

Quindi da una parte un codice di facciata, dall’altra la rivendicazione di una morale pubblica. Le donne sono così bersagli diretti e indiretti del contendere, ma sono sempre e in ogni caso i soggetti/oggetti su cui rifarsi in uno stato di guerra. E di guerra quotidiana si parla anche se le strade non sono tutti i giorni lastricate di sangue. C’è la guerra del discredito, della menzogna, dell’occultamento per il mantenimento dello status quo.

Se un uomo ha osato ribellarsi ai soprusi, al potere mafioso al punto da dovergli chiudere la bocca per sempre, un modo per decostruire quel messaggio di forza e per distruggere quell’esempio positivo è sempre l’utilizzo della donna. L’hanno ucciso non perché aveva denunciato, non perché non aveva pagato il pizzo, non perché si era rifiutato di fare un favore: l’hanno ucciso “per questioni di donne”. Questo meccanismo permette di negare l’atto ribellistico e di giustificare l’atto di ritorsione.

Nella società della barbarie, il fatto di aver importunato la donna di qualcun altro, magari pure di un intoccabile, attutisce il colpo, alleggerisce il disagio per quella morte. Nessuno, tranne in rari casi, sarebbe disposto ad ammettere così apertamente che l’omicidio d’onore è tutto sommato una reazione comprensibile. In compenso invece è molto comune la formula di svilimento: la maggior parte delle vittime di mafie si porta dietro queste ombre che puntualmente vengono tirate fuori in un momento di esaltazione o di ricerca di verità e giustizia.

Le donne servono per alimentare il silenzio, il silenzio che serve alle cosche per andare avanti nei propri affari. La cura del silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Sono madri, mogli che subiscono o che, con complicità, agiscono e creano la cappa d’isolamento del territorio in cui vivono, operano e inviano ordini.

Sono però anche quelle che quando rompono il silenzio mettono in crisi l’intero sistema. È una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono sempre donne quelle che in Calabria stanno indebolendo la ‘ndrangheta. E per queste donne le mafie mettono a disposizione un altro strumento di morte, simbolicamente addirittura più forte dell’omicidio perché “autoinflitto”, “autoindotto”: il suicidio. In tutte e tutti è rimasta nel cuore la storia della piccola Rita Atria che decise di togliersi la vita dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, il magistrato che in quel momento la stava sostenendo e proteggendo dal sistema mafioso che lei aveva deciso di denunciare dopo l’assassinio del padre e del fratello. Ma purtroppo di suicidi, alcuni anche estremamente anomali, la cronaca delle “pentite” e delle collaboratrici di giustizia ne sta sommando tanti altri. Degni di sottolineatura sono quelli che si sono collezionati in Calabria, se non altro perché il modo con cui queste donne hanno deciso (?) di non parlare più è identico. Tita Buccafusca e Maria Concetta Cacciola hanno taciuto per sempre ingerendo acido muriatico. Non è una morte indolore quella che hanno scelto, anzi, quindi non è attribuibile a questo la decisione. Piuttosto questa modalità può essere nello stesso tempo interpretata come “monito”, come resa, come estrema punizione per aver parlato. Dalla bocca sono uscite delle rivelazioni e attraverso quella stessa bocca si lava via la tentazione di continuare, la disperazione di averci provato, il disonore di averlo fatto.

Il vero disonore però purtroppo risiede da altre parti, risiede in questo elenco di vittime, tutte in qualche modo innocenti. Lo sono quelle che hanno avuto la sfortuna di passare per caso da una strada in cui stava avvenendo una sparatoria e quelle che hanno tradito. Lo sono quelle che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro e quelle che hanno denunciato.

Alcune di loro – va detto – sono morte per mano di altre donne, e infatti non ci interessa fare l’apologia della figura femminile nelle terre di mafie. Anzi non ci sfugge come negli anni si sia rafforzato il ruolo delle donne all’interno della criminalità organizzata. Il nostro obiettivo in questo caso non è la descrizione di una parte del sistema, ma è per un verso la necessità di restituire dignità a delle donne dimenticate e per l’altro di svelare il falso mito del “codice d’onore” delle cosche. (…).

* Dell’ass. daSud. Le ricerche sono di Irene Cortese. Dossier a cura di: Irene Cortese, Sara Di Bella e Cinzia Paolillo. Ai testi hanno collaborato Angela Ammirati, Danila Cotroneo e Laura Triumbari.

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