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Il Concilio nelle mani del popolo di Dio

Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 20/10/2012

Alla fine del Vangelo di Giovanni si parla di uno sconosciuto, di cui non si dice mai il nome, ma che è identificato come il discepolo che Gesù amava e del quale disse che sarebbe rimasto, fino al suo ritorno. (...) Noi non siamo gli apostoli, non siamo gli evangelisti, non siamo i dottori, non siamo dei reduci, noi siamo i discepoli. E come discepoli, anche noi siamo dentro una successione; non c’è solo la successione apostolica, che da Pietro e dagli altri apostoli arriva fino ai nostri vescovi e al papa: c’è anche una successione laicale che dai discepoli anonimi che Gesù amava, dal discepolo che è rimasto, è giunta fino a noi; e questa successione discepolare non è meno importante dell’altra, perché anch’essa fa parte della Tradizione che viene da Gesù e che insieme alla Scrittura porta con sé la divina rivelazione e rende attuale per ogni generazione la parola di Dio. (...).

Dunque c’è un ruolo dei discepoli nella formazione e nell’incremento della tradizione apostolica. E siccome il Vaticano II è stato un momento privilegiato nella storia di questa Tradizione ecclesiale, la domanda è quale parte noi discepoli abbiamo avuto nel Concilio e quale ruolo abbiamo adesso nella sua ricezione e trasmissione. La nostra assemblea nasce da qui.

La prima cosa da dire è che il Concilio è stato fatto per noi. Significa questo la decisione di papa Giovanni di farne un Concilio pastorale, cioè tale per cui i discepoli e tutti gli altri potessero capire e crescere nella fede. Se si fosse trattato di riprendere le dispute e ripetere le dottrine espresse dai precedenti Concilii, non ci sarebbe stato bisogno di un nuovo Concilio, disse Giovanni XXIII nel suo discorso inaugurale, «Gaudet Mater Ecclesia». Occorreva invece che i contenuti della fede venissero esplorati ed espressi nelle forme e secondo la cultura del nostro tempo, «nel modo che i nostri tempi richiedono», come dice il testo pronunciato dal papa in latino. La Chiesa doveva farsi raggiungere, come se venisse fatto oggi, dall’invito di Gesù ad ammaestrare e trarre discepoli da tutte le genti, e farlo in modo per loro comprensibile e amico. Cioè, si doveva tornare a raccontare la fede che era stata narrata nei secoli e che si era andata formando di Concilio in Concilio, da Nicea al Vaticano I; non a caso Giovanni XXIII all’inizio del suo discorso richiamava i venti Concilii celebrati «in Oriente e in Occidente, dal quarto secolo al Medioevo, e di là all’epoca moderna». Quella tradizione conciliare, che si era interrotta con la brusca chiusura del Vaticano I provocata dai bersaglieri entrati a Porta Pia, si trattava ora di riprendere, per ripresentare ai discepoli e a tutti la fede della Chiesa accumulatasi nel tempo, la fede di tutti i Concilii. Quindi un Concilio che fosse, ai fini pastorali, l’ermeneutica di tutti i Concilii. (...).

Questo intendeva Giovanni XXIII nel suo discorso dell’11 ottobre quando esplicitamente faceva riferimento a Trento e al Vaticano I, non perché il nuovo Concilio ne ripetesse i precetti, ma perché ne facesse l’esegesi, e insieme facesse l’esegesi dell’intero annuncio cristiano, come Gesù aveva fatto la “esegesi” del Padre. (...)

Letti così i più alti documenti del Concilio svelano insospettate ricchezze. La Dei Verbum sulla divina rivelazione ad esempio può essere letta come interpretazione autentica di Trento, volta a superare la controversia fuorviante sulla sola Scriptura, e a restituire la Bibbia alla Chiesa mettendo la Parola di Dio nelle mani di tutti i fedeli, come parola viva, non più chiusa nella morsa della sola alternativa tra senso letterale e senso allegorico; vi sono altri sensi della Scrittura, noti al Concilio, con cui essa può essere letta e assunta nella vita cristiana.

La Lumen Gentium può essere intesa anche come rilettura e integrazione del Vaticano I, quando restituisce il papa alla Chiesa nella collegialità di pastori e fedeli, sciogliendo l’equivoco della formula oracolare di un pontefice sovrano che parla da sé, e non per il consenso della Chiesa; ancora, essa può essere letta come inveramento pacificante del Tridentino quando considera sempre dovuta la riforma, e non la controriforma della Chiesa.

La riforma liturgica può essere vista come un rinnovato discernimento della preghiera e del culto, nella centralità dell’eucarestia, per sgravare Dio del «carico di errate preghiere», come cantava padre Turoldo, e perché la messa non fosse più lo spettacolo di «cento muti e un pazzo», come si diceva in Sicilia, cioè lo spettacolo di un prete che sussurrava preghiere voltando le spalle ai muti, «chiamati a vivere la loro fede con un puro salto nell’assurdo», come ricorda Giuseppe Ruggieri nel suo preziosissimo libro appena uscito, Ritornare al Concilio.

La Gaudium et Spes, poi, può essere compresa come la purificazione della memoria del Concilio di Nicea, fuori da ogni tutela e comando imperiale (come fu il caso di quel primo Concilio convocato da Costantino), in una Chiesa quindi non più costantiniana; la Gaudium et Spes è in effetti la Costituzione pastorale di una Chiesa che intrattiene in tutt’altro modo il rapporto col mondo del suo tempo, e che perciò può giungere a riconciliarsi con le libertà, lo Stato e la scienza moderni che la Chiesa tridentina e il magistero romano dell’800, come ci ha spiegato Giovanni Turbanti nella sua bellissima relazione storica, avevano rifiutato per una loro supposta contraddizione col Vangelo. Si può anche dire che la Gaudium et Spes sviluppi Calcedonia, nel suo esito antropologico, quando dice che «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (GS, 22), sigillo, questo, di una radicale unità umana.

L’unità umana! Qui sta l’attualità del Concilio. L’unità umana è infatti l’unica prospettiva possibile per la soluzione della crisi presente. Non diversamente da cinquant’anni fa, la crisi ci interpella oggi in modo pressante. C’è troppo scialo di morte, come diceva padre Turoldo; ma c’è anche troppo scialo di poveri. I poveri crescono in tutto il mondo, perché il sistema non li prevede; se ci sono, esso li lascia cadere; i poveri non sono nei numeri delle agenzie di rating né tra i marchi esibiti dai mercati e, come dice l’Apocalisse, senza il marchio della bestia e il numero del suo nome i poveri non possono né comprare né vendere, cioè non possono vivere. Ai mercati essi non interessano. I mercati non capiscono nemmeno che quanto più si è poveri, tanto meno si comprano le sue merci. Intanto immense ricchezze si formano, e si abbattono come tsunami su popoli interi, la finanza domina, l’economia languisce, i Parlamenti sono sviliti, la politica è attaccata e umiliata, perché è l’ultima diga al dominio universale del denaro. Proprio il Concilio invece ci ha detto che la politica è necessaria; noi oggi ancora non sappiamo come ridarle in mano il governo dei popoli, e per questo siamo in crisi; come discepoli sappiamo però che non c’è soluzione se non acquisendo in prospettiva storica e non solo escatologica l’unità dell’intera famiglia umana; la nuova frontiera è quella di un costituzionalismo universale e di una democrazia mondiale dei popoli; e sappiamo anche che questo non è un problema tecnico né un problema di cattolici o non cattolici, ma è un problema sommamente politico ed è responsabilità di tutti nella varietà delle dottrine, dei progetti e degli strumenti di lotta. (...).

Ma i discepoli non sono stati solo i destinatari del Concilio. Ne sono stati anche ispiratori. Certamente i vescovi e il papa sono stati gli autori e la fonte di autorità delle pronunzie conciliari, ma non si sono vergognati di fare appello al senso dei fedeli, di prenderli sul serio come adulti nella fede. E lo hanno fatto non per seguire le mode, ma perché, come hanno scritto nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, «il popolo santo di Dio partecipa dell’ufficio profetico di Cristo», perché la totalità dei fedeli, grazie allo Spirito, «non può sbagliarsi nel credere» quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale», e infine perché il popolo di Dio, nell’aderire «alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita» (LG, 12). Così dei fedeli dice il Concilio. Ed è proprio per riconoscere questo ruolo, vorrei dire questo protagonismo dell’universalità dei credenti, che tra le varie immagini della Chiesa ricordate dalla stessa Lumen Gentium, quella che il Concilio privilegia e mette alla base di tutto è l’immagine della Chiesa come popolo di Dio. Non altrettanto serviva a raffigurare la Chiesa l’immagine dell’ovile e del gregge, perché le pecore sono gregarie; non quella della Chiesa come podere o campo di Dio, perché nel campo le radici sono nascoste e il podere produce, ma non parla; non l’immagine della casa, perché la casa ospita, ma non discerne; non quella del tempio, perché nei santuari di pietra Dio può essere chiuso come in una prigione. Molto più corrisponde all’immaginario dei discepoli di oggi la nozione della Chiesa come popolo di Dio, perché ormai possiamo pensare al popolo come sovrano e non più come suddito, perché il popolo ha radici nel profondo, ma lo si vede, si sa dove sta; il popolo parla, discerne, ascolta, partecipa, è fatto di donne e di uomini, si fa rappresentare e si fa presente esso stesso, il popolo vive in pubblico e ha una sua coscienza segreta. Il popolo di Dio non può essere da meno di ogni altro popolo.

In che cosa dunque i discepoli possono essere considerati ispiratori del Concilio? Quali ne sono i segni, le prove, i sintomi?

La prima cosa che viene in mente è quella della lingua. A meno di non voler sacralizzare il latino, o il greco antico, o l’aramaico, non c’è nessun dogma in gioco nella questione della lingua. Ed era un’evidente istanza dei discepoli che ognuno potesse pregare e credere, che ognuno potesse parlare e fare silenzio nella lingua della madre. La prima rivoluzione del Concilio è stata questa; oggi sembra ovvia, ma le conseguenze, come ha intravisto Karl Rahner, sono incalcolabili, anche riguardo al pluralismo ecclesiale.

La seconda cosa che viene in mente è che nella sua narrazione della fede il Concilio non ha riproposto la dottrina punitiva del peccato originale, nella forma depositata nei catechismi. C’era questa dottrina nello schema preparatorio della Commissione dottrinale, ma il Concilio l’ha lasciata cadere. Non è una dimenticanza, è un’ermeneutica. (...).

Un’altra prova del ruolo avuto dai fedeli si trae da un documento del 2007 della Commissione Teologica Internazionale, approvato dal papa Benedetto XVI. Racconta il documento che era stato chiesto da molti che il Concilio sanzionasse come dottrina di fede il principio sostenuto da secoli secondo il quale i bambini morti senza battesimo non vanno in paradiso, non sono ammessi all’incontro con Dio. Dietro quest’idea c’era un postulato importantissimo della teologia preconciliare, quello secondo cui fuori della Chiesa visibile non c’è salvezza, e però solo col battesimo nella Chiesa si può entrare. Per questo Pio XII aveva detto alle ostetriche che dovevano affrettarsi a battezzare i bambini, se c’era pericolo di vita e quindi il pericolo oggettivo che quei bambini non fossero salvati. La cosa era tanto più importante perché riguardava non solo i bambini cristiani, ma anche tutti gli adulti non cristiani, tutti i non battezzati. Senza battesimo, niente futuro. Dice ora il documento della Commissione Teologica che «la Commissione Centrale Preparatoria si oppose a tale richiesta, consapevole della necessità di proporre una soluzione che meglio si accordasse con lo sviluppo del sensus fidelium», e rivela che «uno dei motivi per cui il Concilio Vaticano II non ha voluto insegnare che i bambini non battezzati sono definitivamente privati della visione di Dio è stato che i vescovi hanno testimoniato che non era questa la fede del loro popolo; non corrispondeva al sensus fidelium», insomma che le loro Chiese non la pensavano così. Perciò per impulso dei fedeli quella dottrina veniva a cadere, e dalla Commissione teologica internazionale, cinquant’anni dopo, essa veniva declassata a semplice benché autorevole opinione teologica presente nella Chiesa, messa in crisi però e resa obsoleta dalla rinnovata speranza nell’amore universale di Dio per tutti gli esseri umani. «Tutti», non «molti». Se non ci fosse stata questa speranza il Concilio non avrebbe potuto fare il suo discorso sulle religioni non cristiane e sulla vocazione alla salvezza di tutte le persone di buona volontà.

Un’altra traccia dell’influsso che il vissuto dei discepoli ha avuto sul magistero dei Padri sta senza dubbio nella rivalutazione conciliare dell’amore umano nel matrimonio. È stato straordinario per noi discepoli vedere una Chiesa celibataria accorgersi finalmente della trascendenza dei nostri amori terreni su ogni ragione strumentale, fosse pure quella eccelsa della procreazione, ammettere che la procreazione non è l’unico fine del matrimonio, riconoscere il valore dell’intima unione e della mutua donazione tra due persone, affermare la dignità e la nobiltà dei sentimenti e gesti di tenerezza che pervadono la vita dei coniugi e integrano un dono che «diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio» (GS, 48-50).

Ed è proprio il discorso della Chiesa che in tal modo si è mostrato generoso, e non solo verso l’amore umano ancora diffamato negli schemi preparatori, ma verso ogni espressione umana della vita della donna e dell’uomo, nel quadro di un’antropologia positiva che è la vera novità del Concilio. In ciò si può dire che il Concilio è stato teatro di una vera e propria eterogenesi dei fini. Partito per provvedere alla Chiesa e alla sua riforma, è approdato all’antropologia. Dallo strumento di salvezza, agli esseri umani salvi. L’essere umano non è un nulla, non è il giocattolo rotto di Dio, ma ne è la mai revocata immagine.

In realtà sulla riforma della Chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri di partenza e fino ad oggi non sembra andato a buon fine; la Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica; tuttavia, proprio per aver messo i discepoli nel suo cuore, nella sua ispirazione e nei suoi fini, il Concilio ha trovato la sua strada per disegnare una Chiesa nuova, quale ci ha fatto intravedere Cettina Militello con la sua sensibilità di teologa, ha aperto un grande discorso sull’essere umano, ha reso fruibile la fede.

Ma se quella, come diceva papa Giovanni e sempre ripete mons. Capovilla, era solo l’aurora, tocca ai discepoli di oggi, tocca a quanti possano trasmettere il messaggio ai discepoli di domani, attraversare il giorno.

Questo dunque ci sembra essere stato il senso di questa nostra assemblea, la sua legittimità, la sua libertà. L’assemblea di una Chiesa non frustrata, ma gioiosa, di quella gioia biblica di cui ci ha parlato all’inizio Rosanna Virgili. I molti contributi di gruppi e comunità che sono stati portati all’assemblea, pur quando criticano, sono dentro questa gioia, dentro questa ricchezza di Chiesa, e perciò la Chiesa stessa non può non gioirne.

È stata la nostra un’assemblea di discepoli che si inserisce nel flusso di quella tradizione della Chiesa, che passa da un Concilio all’altro, da un papa all’altro, da un vescovo all’altro. Ed è in forza dell’impatto che questa Chiesa dei discepoli ha avuto nella Chiesa del Vaticano II, che noi pensiamo che questo ruolo dei discepoli debba continuare; pensiamo che esso debba essere presente e vivo nella ricezione del Concilio e nella sua trasmissione alle giovani generazioni, alle persone nate dopo il 1965, che non videro il Concilio, a quelle nate dopo il 1981, che secondo le statistiche in gran parte hanno perduto la fede; insomma, come ha auspicato anche mons. Bettazzi, un ruolo dei discepoli di oggi verso la Chiesa e l’umanità di domani.

In questo quadro si pongono le iniziative che prenderemo, insieme o autonomamente, anche per dare continuità e sviluppo al nostro discorso, sia nel quadro di una comunicazione ad ampio raggio come potrebbe essere ad esempio un giornale elettronico o un sito, che qui ci impegniamo a promuovere, sia nel quadro di comunicazioni più ristrette a partire dalle singole Chiese, sia partecipando, come ognuno vorrà e potrà, all’itinerario internazionale che culminerà nel 2015. (...).

Cinquant’anni sono solo le prime ore del giorno. Forse siamo arrivati solo al mattutino. Per giungere all’ora sesta, quando finalmente in un’unica luce risplenderanno i lumi accesi dagli esseri umani nei secoli dei lumi, e il Lumen Gentium, il lume di ogni tempo proclamato dalla Chiesa del Concilio, occorre il concorso di tutti, discepoli, dottori, pastori e maestri.

Ciascuno secondo i propri carismi e per la propria parte. Perciò noi più anziani diciamo a voi, Chiesa più giovane, a ciascuno per quanto gli compete, «il Concilio è nelle vostre mani». Ed è soprattutto nelle mani dei poveri. Come ci ha scritto il più anziano tra noi, Arturo Paoli, a proposito di quel contadino senza terra che dopo aver partecipato a una lunga marcia in Argentina per rivendicare il diritto alle terre incolte, alzò il libro dove aveva letto il Vangelo del giorno e disse a gran voce: «Questo libro vuole che noi ci sentiamo capaci di realizzare la giustizia in suo nome, stando uniti e lavorando la terra». Allo stesso modo Giovanni XXIII aveva scritto nel Giornale dell’anima: «Al di sopra di tutte le opinioni e i partiti, che agitano e travagliano la società e l’umanità intera, è il Vangelo che si leva. Il papa lo legge e coi vescovi lo commenta».

Questo, come abbiamo detto oggi, è stato appunto il Concilio: papa e vescovi hanno riletto il Vangelo e l’hanno commentato per noi, in modo che anche in questa età esso potesse giungere a noi. E questa è per noi la Chiesa del Concilio: una Chiesa che alza il Vangelo e dice in suo nome che si devono realizzare la giustizia, la pace, e la salvezza della Terra. E questo è ciò che noi dobbiamo intraprendere insieme a tutti i poveri del mondo, facendo nostra la parola di Dio comunicata ad Ezechiele: «L’ho detto e lo farò». Diremo e faremo.

* Giornalista e saggista

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