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Il papa cambia. Perché tutto resti uguale? Intervista a Daniele Menozzi

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 02/03/2013

Prima di Benedetto XVI, l’ultima volta che un papa aveva lasciato il soglio pontificio anticipando la propria morte era stato 600 anni fa, nel 1415, con papa Gregorio XII, in una situazione piuttosto complessa, sebbene non unica nella storia della Chiesa: c’erano tre papi – quello considerato legittimo, appunto Gregorio XII, e gli antipapi Benedetto XIII e Giovanni XXIII –, il Concilio di Costanza (1414) deliberò le dimissioni di tutti tre, che però vennero effettivamente rassegnate solo da Gregorio nel 1415; lo stesso Concilio poi depose anche gli altri due antipapi e, dopo un “buco” di due anni, la situazione – e la “successione apostolica” – si normalizzò solo nel 1417 con l’elezione di Martino V, che regnò fino al 1431, ponendo fine al “grande scisma” interno alla Chiesa d’Occidente iniziato 40 anni prima, nel 1378, con la nomina del primo antipapa, Clemente VII.
Tuttavia «il precedente storico che è possibile accostare alle dimissioni di Benedetto XVI è quello di Celestino V, nel 1294», spiega Daniele Menozzi, professore di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa, specialista del papato in età moderna e contemporanea, sui cui ha scritto numerose monografie (fra le altre: Chiesa e diritti umani, Il Mulino, 2011; Chiesa, pace e guerre nel Novecento, Il Mulino, 2008; Giovanni Paolo II. Una transizione incompiuta?, Morcelliana, 2006; Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Viella, 2002). Un pontefice, Celestino V, reso famoso dai versi che gli avrebbe dedicato Dante Alighieri nel terzo canto dell’Inferno, raccontando degli ignavi – «vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto» –, sebbene non tutti i critici danteschi siano concordi nell’attribuzione, preferendo invece riconoscervi Ponzio Pilato, Romolo Augustolo oppure Esaù, che rinunciò alla primogenitura in favore del fratello Giacobbe per «un piatto di lenticchie». Ma «il contesto storico è completamente diverso», precisa Menozzi nell’intervista che ci ha rilasciato, e ci sono una serie di «elementi che oggi sono impensabili». (luca kocci)

Professor Menozzi, quali valutazioni è possibile fare sulla decisione di papa Ratzinger di lasciare il pontificato?
Mi pare che si possano formulare due ipotesi. O la rinuncia è motivata dalla constatazione che la linea di governo messa in opera in questi otto anni si è rivelata inadeguata ad affrontare e risolvere i problemi della Chiesa odierna, e dunque Ratzinger ha ritenuto di passare la mano per giungere all’individuazione di un papa capace di esprimere una diversa prospettiva di azione. Oppure la rinuncia trova ragione nella convinzione che quella linea, di per sé valida, non può essere efficacemente realizzata da un papa anziano, debole e con forze calanti, sicché Ratzinger ha pensato che occorra trovare un successore in grado di portarla a compimento con l’energia, la decisione e la determinazione – e forse anche la rigidità – giudicate necessarie. Personalmente ritengo che discorsi, modalità, tempi dell’atto compiuto da Benedetto XVI rendano più probabile questa seconda ipotesi.

E l’ipotesi che in un certo senso sia stato schiacciato da quello stesso potere che si è andato concentrando nella persona del pontefice e all’interno della Curia romana? In un certo senso un potere che fagocita se stesso…
Non credo che l’accentramento del potere di governo nelle mani del papa sia stato determinante nella rinuncia di Benedetto XVI: non riesco a vedere un papa che, dotato di troppo potere, non è in grado di gestirlo. Mi pare piuttosto che Ratzinger si sia reso conto dell’impossibilità di governare la conflittualità interna alla Curia. È vero che scontri interni alla sede romana sono sempre esistiti nella storia del papato e che le dimensioni elefantiache assunte oggi dalla Curia li hanno ingigantiti. Mi pare tuttavia che la linea del papato li abbia esasperati, finendo per renderli ingovernabili. Un esempio è fornito dal tentativo di recuperare i tradizionalisti: è evidente che i suoi ripetuti fallimenti hanno indotto i settori curiali contrari alla accettazione delle condizioni via via poste dai lefebvriani per continuare il dialogo con Roma a cercare posizioni di maggior potere da cui arginare la temuta deriva tradizionalista del pontificato. Ma più in generale con la sua azione di governo erede della tradizione intransigente ottocentesca – che prospetta una presenza direttiva della Chiesa su aspetti della vita collettiva che le persone si sentono invece in grado di autodeterminare – Ratzinger ha accentuato le contraddizioni tra la comunità ecclesiale e la società. E le varie fazioni presenti in Curia hanno potuto far leva su questo aspetto per “ideologizzare”, e dunque massimizzare, le loro istanze di potere, irrigidendo i conflitti, probabilmente fino ad un punto di non ritorno. Indicativa di questo aspetto è la vicenda del maggiordomo, Paolo Gabriele, che ha asserito di aver tradito la fiducia del papa per aiutarlo a fare il bene della Chiesa.

È possibile fare qualche parallelo con le dimissioni dei pontefici che lo hanno preceduto nella storia della Chiesa?
Tutte le abdicazioni di papi sono legate a momenti di crisi profonda nella vita della Chiesa. Sui pontefici della storia antica non si può dire molto, dal momento che storia e leggenda sono inestricabilmente connesse. Invece i casi medievali di Benedetto IX, Gregorio VI e Gregorio XII mi sembra che presentino differenze radicali rispetto ad oggi. Allora, forse, il precedente storico che è possibile accostare alle dimissioni di Benedetto XVI è quello di Celestino V, nel 1294. Ma se è indubbio che Ratzinger ha considerato con attenzione l’esempio di Pietro da Morrone – non va dimenticato che nel 2009, durante la visita a L’Aquila, depose il pallio sull’urna di Celestino V, in segno di omaggio –, tuttavia il contesto storico è completamente diverso: basti pensare al ruolo giocato nella vicenda di Celestino dall’invadenza del potere politico e del cardinal Caetani, il futuro Bonifacio VIII, nella quotidiana gestione della Chiesa: tutti elementi che oggi sono impensabili.

Negli ultimi decenni si è assistito ad una progressiva “sacralizzazione” del pontificato e dei pontefici: basti pensare al fatto che, in particolare sotto Pio XII e Giovanni Paolo II, i papi hanno proceduto alla canonizzazione dei loro predecessori, quasi a voler santificare il ministero petrino e, di conseguenza, chi quel ministero esercita. Le dimissioni di Ratzinger potrebbero invece contribuire a interrompere questa tendenza, alla desacralizzazione del papato, alla sua umanizzazione?
Da un certo punto di vista la rinuncia rappresenta una normalizzazione del papato. Come è noto, i vescovi, raggiunto il settantacinquesimo anno di età, sono tenuti a rassegnare le dimissioni. Il papa è il vescovo di Roma. Pur con il privilegio di decidere da sé il momento in cui abbandonare il ministero, senza dovere quindi sottostare alle norme canoniche, anche il vescovo di Roma si allinea alla normativa prevista per l’episcopato universale, secondo cui ad un certo punto della vita occorre abbandonare le funzioni svolte. Naturalmente questo atto non vincola i successori, che saranno liberi di adeguarsi o meno al precedente. Ma tra la rinuncia al governo della Chiesa universale, anche se dovesse diventare prassi futura del papato, e la desacralizzazione della figura del papa, che è stata profondamente introiettata nella mentalità cattolica durante gli ultimi due secoli, passa un abisso.

La sacralizzazione è ormai quindi un dato immodificabile?
Immodificabile no, ma sicuramente non sono sufficienti le dimissioni di un papa ad interrompere ed infrangere questa tendenza. Il papa, nei primi secoli cristiani era definito “successore di Pietro”, poi è diventato “vicario di Cristo” e infine, con una forte insistenza su questo punto nell’età della secolarizzazione, “vicario di Dio”. Si tratta di un meccanismo in atto da secoli, fortemente radicato nella mentalità cattolica, che difficilmente può essere smontato dalle dimissioni di un pontefice. Mi pare insomma che occorra un tempo lungo e ulteriori gesti per desacralizzare la figura papale.

Ma le dimissioni di Ratzinger rappresentano davvero un evento rivoluzionario?
L’atto è senza dubbio inusuale rispetto ai collaudati meccanismi dell’istituzione ecclesiastica ed è reso ancora più clamoroso dalla differenza con la scelta di Giovanni Paolo II di rendere la sua malattia e la sua morte testimonianza del modello di vita cristiana da lui giudicato esemplare. Ma che la rinuncia al pontificato rappresenti un evento “rivoluzionario” potremo saperlo sono nei prossimi mesi, e forse già l’esito del Conclave ci aiuterà a capirlo.

Un gesto tanto eclatante da far dimenticare tutta l'azione di governo di Ratzinger – per non parlare del ventennio abbondante in cui è stato prefetto della Cdf – fortemente restauratrice, trasformandolo in un papa riformatore?
In questi giorni si è scatenata una massiccia apologetica, probabilmente motivata anche dall’intento di far dimenticare le concrete sconfitte che la linea di governo di Benedetto XVI ha incontrato nel misurarsi con quasi tutti i nodi della attuale situazione ecclesiale.

E se le dimissioni, preso atto dell’incapacità di governare la Chiesa – come ammesso esplicitamente nel discorso in cui Ratzinger ha annunciato la rinuncia al pontificato –, sono solo un modo per orientare in maniera decisiva il Conclave nella scelta del suo successore? Un po’ come gli imperatori romani che indicavano il loro “delfino” quando erano ancora in vita…
Dai discorsi che Benedetto XVI ha fatto dall’annuncio delle dimissioni fino all’inizio della “sede vacante” in effetti è possibile tracciare l’identikit del suo successore così come Ratzinger lo vorrebbe: relativamente giovane, dotato di energia, severità e capacità di governo per realizzare quello che da parte sua non è riuscito a fare. Ed è inevitabile, nonostante le scontate dichiarazioni di non intromissione ed interferenza, che Ratzinger influirà su Conclave: ogni suo atto, ogni sua parola, ogni suo gesto hanno avuto ed avranno un peso. Anche la tempistica mi sembra per certi aspetti studiata: costringere i cardinali ad agire in fretta, perché è difficile arrivare a Pasqua senza che ci sia già il nuovo papa.

Nel Conclave esiste un “fronte progressista?”
Non credo. Ma se c’è, è debolissimo. In effetti si tratta di un Conclave interamente nominato, e “blindato”, da Wojtyla e da Ratzinger: davvero difficile individuarvi un’ala progressista.

Quindi ci troveremo con un nuovo papa ancora conservatore?
Dipenderà dai cardinali riuniti in Conclave: se qualcuno avrà il coraggio di presentare le difficoltà che la riproposizione di una linea neo-intransigente ha incontrato, allora i giochi potrebbero riaprirsi. Credo che se nel Conclave si avvierà una discussione vera sul ruolo della Chiesa nella società contemporanea, a partire dalla constatazione dei fallimenti del progetto di neo-cristianità avanzato negli ultimi due decenni, allora potrà aprirsi qualche spiraglio. In questa ottica potrebbe esserci lo spazio per qualche mutamento e verificarsi qualche sorpresa.

La Chiesa sarà la stessa dopo questo avvenimento?
Il problema del cambiamento della Chiesa, come mostra tutta la letteratura storica sulle riforme, si gioca su due livelli: l’interiore trasformazione spirituale dei credenti e la modificazione delle strutture istituzionali. Di per sé la decisione personale di Benedetto XVI di rinunciare al ministero petrino, perché non si sente più in grado di svolgerlo per l’avanzare dell’età, non incide molto su nessuno dei due ambiti. Ma può aprire nella comunità ecclesiale, e si può auspicare già nel Conclave, una riflessione sulla linea tenuta dal pontificato, sulla sua adeguatezza pastorale e missionaria, sulla sua capacità di rispondere ai bisogni degli uomini e delle donne di oggi. Dalle risposte date a queste domande dipenderà la possibilità di un cambiamento.

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