DALLA PARTE DEGLI SFRUTTATI
Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 01/06/2013
Qual è la sua esperienza di missionario statunitense in Venezuela?
Ero un sacerdote diocesano di Cheyenne, in Wyoming. Nel 1984 il mio vescovo mi autorizzò ad andare all'estero con un gruppo di missionari, noti come “Padri di Maryknoll”. Sono arrivato in Venezuela nel 1985 e ho avuto il privilegio di vivere, fino al 1993, tra persone molto buone in una casa di cartone e latta, senza acqua, senza fognature, ecc., nelle stesse condizioni in cui era stata costretta a vivere quella gente (l'acqua ci arrivava di tanto in tanto in camion cisterne e dovevamo pure pagarla).
Credo che la storia di Maryknoll in Venezuela presenti molte somiglianze con quanto è avvenuto in Venezuela negli anni della presidenza Chávez.
Quando Maryknoll giunse nel Paese negli anni '60, l'idea era quella di costituire tre parrocchie: una in una parte della città con gente della classe alta; la seconda in una zona operaia, di gente della classe medio-bassa; e l'ultima in un barrio (in Venezuela per barrio si intende una zona depressa della città, sul tipo di ciò che altrove si definisce favela, slum o baraccopoli), tra i più impoveriti. L'idea era di promuovere la comunicazione e l'amicizia tra questi tre gruppi. Dopo alcuni anni, i sacerdoti si resero conto che l'esperimento non stava producendo buoni risultati. Un giorno uno di loro decise che il luogo più adatto per loro erano i barrios, e andò lì a vivere. A poco a poco essi decisero che questo doveva essere il lavoro di Maryknoll in Venezuela: vivere nei barrios e ascoltare la voce della gente oppressa.
Dico “oppressa” e non “povera”, perché la parola “poveri” non mi piace. Molti anni fa, durante una messa, una persona parlò di “noi poveri”. E un giovane di un altro barrio che quel giorno era in visita da noi replicò: «Non siamo poveri. Siamo oppressi, siamo sfruttati».
Se parliamo di “poveri”, possiamo distinguere tra “poveri” e “ricchi”, ma tra i due termini non c'è necessariamente rapporto. Se invece parliamo di “oppressi”, vuol dire che li stiamo immediatamente ponendo in relazione agli “oppressori” e a situazioni di oppressione. Se usiamo il termine “sfruttati”, stiamo dicendo che vi sono “sfruttatori” e situazioni di sfruttamento.
È per questo che non sono a favore dell'espressione “opzione per i poveri”. Credo che il lavoro della Chiesa sia quello di fare “l'opzione per gli oppressi e per gli sfruttati”. Per me, l'espressione “opzione per i poveri” è d'élite. Non si tratta di una condizione umana, ma dello stato in cui quelle persone sono state costrette. Se guardiamo alla vita di Gesù, credo che sarebbe meglio sostituire il termine “poveri” nella Bibbia con quello di “oppressi”. E così possiamo includervi le madri single, gli operai sfruttati, le persone omosessuali, ecc. Così è stata, a mio giudizio, la missione di Gesù.
Stavo dicendo che quanto avvenuto a Maryknoll ha molto a che vedere con quanto sta succedendo oggi in Venezuela. Vi sono persone che dicono che Chávez ha diviso il Paese. La realtà è che le divisioni esistevano prima, ma che nessuno ne parlava. Chávez ha amato il Venezuela e, a mio giudizio, voleva che tutti potessero essere felici. Ma è stato molto difficile per la classe alta e medio-alta considerare la gente della periferia su un piano di uguaglianza. Un giornalista europeo era andato in un ristorante nella zona elegante di Caracas per parlare con le persone. Un uomo gli disse: «Non ci sono ricchi e poveri in Venezuela. Vi sono persone intelligenti e persone stupide e gli stupidi vivono nei barrios e tu puoi fare tutto quello che vuoi, ma la realtà non cambia».
Anche qui in Italia si è data di Chávez un’immagine negativa. Qual è il suo giudizio sulla figura del leader bolivariano?
Non ho mai conosciuto Hugo Chávez. Non gli ho mai stretto la mano. Ciononostante, è come se lo avessi conosciuto. E lo rimpiangerò molto, per varie ragioni.
Per prima cosa, mi piaceva ascoltarlo, quando cantava e recitava poesie. Aveva un repertorio incredibile di canzoni e di versi. E, con la sua voce, condivideva le belle parole di altri. Un giorno ero su un autobus a Caracas quando passò in direzione contraria una carovana di auto con un gruppo di sostenitori di Chávez. Una donna disse a voce alta, con un accento spagnolo, riferendosi a Chávez: «Che razza di presidente è questo, che canta quando pronuncia un discorso!». Per lei questo era in contraddizione con la dignità di un presidente. Per me, è stato qualcosa di unico e di bello.
Secondo: rimpiangerò la saggezza di Chávez. Ho detto molte volte che la mia esperienza in Venezuela è stata come se qualcuno mi stesse quotidianamente bombardando la testa con nuove idee. Ma gli anni della presidenza di Chávez hanno intensificato questo bombardamento.
Ero incantato dal suo programma domenicale Aló Presidente. Ero sempre in attesa di qualche idea nuova. Appena un esempio: quando venne proposta una riforma della Costituzione venezuelana nel 2007, fu presentata l’idea che nelle università pubbliche tutti gli impiegati dovessero avere il diritto di votare per il rettore. A molti l’idea non piacque. Cuochi, addetti alle pulizie, studenti che votano per il rettore dell’università? E che ne sanno? Eppure, in ogni parte del mondo i cittadini hanno tutti il diritto di votare per il presidente della nazione. Perché coloro che lavorano in un’università non dovrebbero avere un diritto analogo?
Terzo: rimpiangerò il suo umorismo. I venezuelani hanno un grande senso dell’umorismo. Mi ricordo di una donna che parlava di suo fratello che viveva da anni negli Stati Uniti e che lì stava bene, ma, le aveva confessato, gli mancava l’umorismo venezuelano. Un giorno nel barrio chiesi a un giovane se tutte le frasi di una donna che abitava lì, di nome Emilia, avessero un doppio senso. Mi rispose: «Mai! Generalmente hanno un triplo o quadruplo senso». Quando Chávez, alle Nazioni Unite, disse che si sentiva odore di zolfo, in riferimento al presidente Bush che aveva parlato il giorno prima, io mi trovavo in un ufficio a Caracas. Ridevano tutti. Alla fine del suo discoso, Chávez ricevette un forte applauso per tutto quello che aveva detto, ma i mezzi di comunicazione evidenziarono soltanto quella battuta. Alcuni giornalisti hanno parlato di Chávez come se fosse un pagliaccio. A mio giudizio, il mondo ha bisogno di più presidenti pagliacci come Chávez. Egli non ha mai invaso un altro Paese; non ha mai iniziato una guerra; ha lottato a favore degli oppressi. Se è questo che significa un presidente pagliaccio, magari averne di più!
Quarto: Chávez è stato un maestro. Insisteva continuamente sul fatto che la gente dovesse leggere di più. Lui stesso stava sempre a leggere e a raccomandare libri. Un giorno, mentre mi trovavo in un barrio, ascoltai un giovane spiegare a un gruppo di stranieri che due erano le radici della rivoluzione in Venezuela. Una era l’idea di democrazia partecipativa. L’altra era quella del lavoro endogeno. Io non avevo mai sentito la parola “endogeno”, neppure in inglese. Chiesi cosa significasse questo termine. Il giovane mi spiegò: «Il presidente Chávez ci ha detto che per secoli sono stati altri a imporci le loro idee. Ora dobbiamo cercare in noi stessi nuove idee per la nostra comunità, per la nostra società, per il nostro mondo. È questo che vuol dire “endogeno”: qualcosa che esce da noi stessi». Oggi il Venezuela presenta “centri endogeni” in molte parti del Paese.
Quinto: Chávez parlava un linguaggio comune. Mi ricordo di una signora che diceva che Chávez era stato il primo presidente che lei riusciva a capire. Utilizzava anche le parole che vengono considerate volgari, ma, come diceva Alí Primera, «non c’è peggiore volgarità di questa società». Una volta dissi a un giovane che avevo pestato una “merda” in strada. Mi disse: «Come prete, forse non dovrebbe usare quella parola». E suggerì “escremento”, “materiale fecale” o “popò”. Gli dissi: «Allora ho pestato un escremento, del materiale fecale, la popò. Ma puzzava di merda». Perché una parola è accettabile e un’altra no? Vuole dire la stessa cosa.
Quando una volta Chávez pronunciò la parola “merda”, perla stampa internazionale fu uno scandalo. Eppure, quando il presidente Obama parla di “guerra”, nessuno rimane impressionato, e nemmeno quando vengono menzionati i cosiddetti “danni collaterali”, ossia civili, donne e bambini assassinati. Per me, le volgarità più grandi nel mondo di oggi sono parole come “guerra”, “danni collaterali”, “povertà” e “fame”. Oggi, molti considerano Chávez un santo. Quest’idea non mi crea alcun problema. Non era una persona perfetta. Nessun santo lo è stato.
Rimane una domanda: perché non ho mai conosciuto Chávez personalmente? Devo dire che ero un “chavista in incognito”. Avevo tenuto più di cento conferenze sul Venezuela, ma la maggior parte fuori dal Paese. Avevo scritto più di 300 articoli e pubblicato un libro, Cowboy in Caracas, A North American’s Memoir of Venezuela’s Democratic Revolution. Degli amici mi hanno detto che Chávez una volta fece il mio nome in televisione. Ho avuto la possibilità di conoscerlo. Credo che vi siano più di 10mila persone a Caracas che mi riconoscono e, quando mi trovo in centro, è comune che qualcuno gridi “Charlie”, gente dei barrios. Ma io non volevo che persone dell’opposizione mi identificassero con Chávez. Io avevo e ho ancora paura dell’opposizione che odia Chávez. C’era un sito Internet, “Reconócelos”, in cui qualcuno dell’opposizione metteva foto di sostenitori di Chávez. Io non volevo che la mia foto finisse lì. Sapevo come l’opposizione aveva trattato i militanti chavisti durante il golpe del 2002. Ho sperimentato l’odio in molte occasioni. Per questo ho cercato e cerco di mantenere tutto l’anonimato possibile in Venezuela.
Come si spiega la fuga di voti registrata dal chavismo?
Chávez voleva realizzare una rivoluzione pacifica che includesse tutti i settori della società venezuelana. Ma lo Stato è lo stesso Stato corrotto di quelli che governavano prima, uno Stato plasmato da loro e in funzione dei loro interessi. Questo modello continua ad esistere e in esso si trovano persone corrotte che ora si mascherano da chavisti. È la cultura rentier della borghesia parassitaria, che non produce nulla e che vive del reddito pertrolifero e pertanto di quello che questo Stato le garantisce. “Chávez mi piace, ma non mi piace la gente intorno a lui”: una frase che ho sentito mille volte e che ha a che vedere con questo problema della corruzione e dell'inefficienza.
Al tempo stesso, nessuno, se parla con onestà e non fa contropropaganda, può negare che la situazione della gente oppressa sia migliorata. Allora, com'è possibile che il chavismo abbia perso questi voti? Il governo venezuelano dà fastidio a molti Paesi che ritengono siano stati lesi i loro interessi economici o che non trovano conveniente il modo in cui quel governo si relaziona con diversi Paesi che non ricadono sotto la sfera di influenza statunitense. E allora si prodigano con grande impegno per creare una situazione di instabilità, ponendo per esempio un'enfasi esagerata su problemi pur reali come la corruzione. È stata fatta dall'opposizione molta propaganda approfittando della situazione della corruzione e dell'inefficienza, per esempio parlando degli “enchufados”, le persone con legami politici.
Inoltre, la campagna elettorale è stata segnata da tentativi costanti di screditare Maduro. Ho sentito una persona in metro parlare di Maduro come di un semplice conducente di autobus. Non so se pure questa campagna di discredito abbia qualcosa a che vedere con il risultato elettorale.
Le persone che ancora si trovano nel barrio in cui vivevo io (sono in attesa di nuove abitazioni entro la fine di quest'anno) hanno votato Maduro all'89%. Quelle che vivono nella nuova città “socialista” di Ciudad Caríbia hanno dato a Maduro il 95% delle preferenze. Ma apparentemente molte persone dei barrios non condividono questa idea.
Sarà possibile invertire questa tendenza?
Personalmente ritengo che l'atteggiamento tenuto da Capriles e dalla gente delle classi alte dopo la votazione non li favorirà alle prossime elezioni. “No one likes a poor loser”. Dire alla gente di uscire in strada con la sua “arrechera” (rabbia, ndt) non risponde, a mio giudizio, a quello che vuole la maggior parte della popolazione venezuelana. L’opposizione ha commesso azioni che sconfinano nel fascismo: si spiegano così le 11 persone assassinate per aver cercato di difendere spazi come i mercales (centri di distribuzione di alimenti alla metà del prezzo di mercato, ndt) o i centri di salute. Questo sì che è nuovo in Venezuela: il fascismo.
La soluzione è quella di realizzare cambiamenti più profondi, come quelli di cui ha parlato Chávez in uno dei suoi ultimi discorsi prima di informare il Paese del suo stato di salute. È quanto si può leggere in un documento dal titolo “Golpe de timòn” (inversione di rotta, ndt) di grande interesse per chi voglia conoscere quali sono gli obiettivi da conquistare.
Quali sono dunque le principali sfide per il governo Maduro?
1) Che porti avanti il lavoro già avviato. Che affronti il problema della violenza. Che continui a mantenere una buona relazione con altri Paesi. Che faccia qualcosa per garantire alla gente l'accesso ai prodotti che i grandi imprenditori hanno fatto sparire dai supermercati. Non c'era e non c'è scarsità di cibo in Venezuela: sono solo scomparsi alcuni prodotti. Quando non c’era zucchero, non mancavano mai, però, la Pepsi-Cola e la Coca-Cola e i cereali Kelloggs, e la farina PAN (un marchio venezuelano di farina di mais precotto delle Empresas Polar; ndt), che qui non si trova, viene venduta però in Europa o negli Stati Uniti.
2) Che non cada più nelle trappole tese dall'opposizione per cercare lo scontro. La rissa in Parlamento del 30 aprile scorso (in cui sono rimasti contusi alcuni deputati dell’opposizione; ndt) è stata una manovra ben orchestrata dalla destra e i chavisti sono caduti nella provocazione. Avrebbero dovuto rispondere con tranquillità, lasciando che i deputati dell'opposizione agissero come bambini maleducati, come buffoni.
Qual è la sua opinione su Nicolás Maduro? Sarà all’altezza della carica che ricopre?
Non mi sento ancora in grado di esprimere un’opinione. La mia speranza è che sia un presidente ancora più grande di Chávez. Francisco de Miranda è stato una figura molto importante nella storia del Venezuela, ha partecipato anche alla rivoluzione francese. Ma oggi Simón Bolívar è considerato ancora più grande. Maduro non è Chávez. È Maduro. Ciascuno ha il suo stile, ma gli obiettivi sono gli stessi: approfondire i cambiamenti avviati. Credo che abbia iniziato molto bene. Lavorando in équipe e uscendo in strada per ascoltare il popolo.
Quanto è avvenuto dopo le elezioni può essere considerato come un golpe post-elettorale?
Sì, e fa parte di una strategia che si sta studiando e finanziando da quando Chávez è apparso sulla scena politica: Chávez dà fastidio e ora Maduro dà fastidio. L'obiettivo è quello di generare una crisi nel Paese e per realizzarlo si lavora sulla coscienza del popolo attraverso l'iper-utilizzo della guerra mediatica.
Cosa pensa delle ultime dichiarazioni della Conferenza episcopale venezuelana in cui si respinge «categoricamente la criminalizzazione della protesta pacifica consacrata nella Costituzione»? Come si può definire pacifica la protesta dell'opposizione dopo le elezioni?
La Conferenza episcopale ha emesso due documenti dopo il 14 aprile. A mio giudizio, i comunicati dei vescovi sono stati molto di parte. Si tratta di dichiarazioni più adatte a politici e a filosofi che a dei pastori. Nella notte del 14 aprile, quando il Paese ormai sapeva che Henrique Capriles aveva perso le elezioni, egli ha esortato i suoi seguaci a scendere in strada e a mostrare la loro “arrechera”. Si tratta di una parola molto forte. La conseguenza che ha avuto tale espressione d'ira è stato l'assassinio di undici sostenitori del governo. I vescovi non hanno mai riconosciuto questa relazione tra le parole di Capriles e le persone uccise. Alla fine del primo documento essi hanno espresso appena in una frase le loro condoglianze alle famiglie. Quasi una postilla. Ma il fatto che dei deputati al congresso abbiano ricevuto delle ferite in una rissa da loro stessi iniziata ha meritato un paragrafo intero.
Quando, dopo aver appreso i risultati delle elezioni, Capriles ha invitato i suoi seguaci di ogni parte del Venezuela a recarsi a Caracas per una grande marcia verso la sede del Consiglio Nazionale Elettorale, il governo non ha permesso la manifestazione. È stata una decisione molto saggia, a mio giudizio. Avremmo avuto un altro 11 aprile 2002, quando l'opposizione marciò in direzione del palazzo presidenziale a Caracas. Capriles aveva ogni tipo di possibilità per impugnare i risultati, senza provocare uno scontro di piazza.
I vescovi "dimenticano" questa realtà e difendono semplicemente il diritto di protestare: un principio molto buono, ma anche un principio che richiede senso di responsabilità. Essi prescindono completamente dal contesto in cui Capriles ha realizzato la sua protesta.
Nel libro che ho scritto sulla storia degli ultimi anni in Venezuela (Cowboy in Caracas, A North American’s Memoir of Venezuela’s Democratic Revolution), c'è un capitolo che si intitola “2002, The Year with only 363 Days” (l'anno che ha avuto solo 363 giorni, ndt). L'opposizione non ha mai riconosciuto quale fosse il suo obiettivo l'11 e il 12 aprile dell'anno in cui è avvenuto il colpo di Stato. Ora stiamo parlando di un giorno che ha avuto solo 23 ore. L'opposizione e i vescovi non vogliono riconoscere che il discorso di Capriles la notte delle elezioni è stato pieno di odio e che le sue parole hanno arrecato, e continuano ad arrecare, molto danno al Paese.
Per me, il fatto che i vescovi offrano il loro aiuto per mediare tra i due settori è una presa in giro. Per anni essi hanno espresso la loro parzialità contro il governo. Oggi essi semplicemente non hanno alcuna credibilità per svolgere questo tipo di ruolo. Non può sorprendere che Capriles abbia chiesto ai vescovi di fare da mediatori.
Il presidente Barack Obama ha messo in discussione la vittoria di Nicolás Maduro e ha affermato che l'«unico interesse» degli Stati Uniti è quello di assicurarsi «che i venezuelani siano in grado di scegliere il proprio destino». La politica degli Stati Uniti verso l'America Latina continua ad essere quella di sempre…
La politica degli Stati Uniti nei confronti dell'America Latina è dettata dai loro interessi economici e da quelli degli ex-cubani a Miami, che hanno l'appoggio degli ex-venezuelani che vivono lì. Chiusi nel loro irreale mondo anticomunista, essi non vogliono riconoscere che la situazione dell'America Latina è cambiata. E le parole del segretario di Stato Usa, John Kerry, riguardo all'America Latina come patio trasero (the backyard, cortile di casa) degli Stati Uniti riflette l'atteggiamento del governo di Obama. Né gli ex-cubani, né gli ex-venezuelani, né il governo degli Stati Uniti riconoscono quanto sta avvenendo nel sud del continente.
Una volta, al termine di una conferenza che ho tenuto in un'università degli Stati Uniti alla presenza di alcuni giovani venezuelani, una ragazza ha alzato la mano per fare un commento. E ha detto, semplicemente: «Nulla di quello che lei ha detto è vero», e si è seduta.
Io avevo vissuto in Venezuela più anni di lei, e avevo molta più esperienza di lei come adulto. Avevo vissuto in un ambiente molto diverso da quello della sua famiglia. Ma la ragazza non ha potuto accettare che quello che io avevo detto fosse una parte della storia del Venezuela.
Lo stesso atteggiamento caratterizza la politica degli Stati Uniti. Finché il governo Usa continuerà ad ascoltare la voce degli ex-cubani e degli ex-venezuelani, che riflette la cecità dell’opposizione in Venezuela, e continuerà a mantenere altri Paesi in una posizione di subalternità, non mi aspetto alcun cambiamento nell’atteggiamento del governo degli Stati Uniti in America Latina. Credo piuttosto che continuerà ad intensificare la sua politica di ingerenza per destabilizzare un governo eletto democraticamente.
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