Ingiustizia è fatta
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 38 del 02/11/2013
Ne discutono i parlamentari, ne parla la gente comune, nascono petizioni contro. E si raccolgono migliaia di firme perché, oltre qualche altro particolare, c’è una frase magica: la “certezza della pena”. Non importa che secondo la legge italiana la pena non sia solo il carcere e che ci siano misure alternative che garantiscono una recidiva notevolmente più bassa di quella prodotta dal carcere. Non importa che il 40% delle persone detenute siano in custodia cautelare (in Europa tale percentuale è inferiore al 25%) e che circa la metà esca, essendo riconosciuta innocente. È chiaro che correggere queste storture è più valido che dare l’amnistia senza che ci siano, all’esterno, gli strumenti di accoglienza necessari; ma c’è una scadenza: il 28 maggio 2014, data entro la quale, per disposizione della Corte di Strasburgo, l’Italia deve aver regolarizzato la situazione delle sue carceri. Credere che da adesso fino a maggio vengano abrogate la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli, che si riduca la custodia cautelare e si aumentino i trasferimenti alle misure alternative è come credere alla Befana.
Lunedì 14 ottobre, nel teatro di Rebibbia Nuovo Complesso, Ascanio Celestini incontra i detenuti; li intervista, e lo fa con una trovata geniale: «Che gli dico al mio vicino di casa se mi dice che…», e tira fuori tutti gli stereotipi che circolano comunemente nella nostra società. Il dibattito si fa serrato. Particolarmente significativi due interventi: un detenuto, dopo aver raccontato le esperienze di vita attraverso cui è giunto al reato, dice che a lui l’amnistia non interessa, perché fuori non ha lavoro. Più incisivo ancora l’altro: «Non chiedo l’amnistia; voglio scontare la mia pena, ma voglio scontarla secondo le leggi dello Stato italiano; e voglio che sia rispettata la mia dignità». Si riferisce alle norme della Riforma penitenziaria del 1975, al Regolamento di attuazione del 2000 e all’art. 3 della Costituzione.
E questo Celestini riporta al Convegno che si tiene nella facoltà di Giurisprudenza di Roma Tre su “Carceri, immigrazione, diritti umani nello spazio costituzionale europeo”. E lì il discorso viene sviscerato e approfondito. La ministra Cancellieri riconosce che i posti letto regolamentari all’interno delle carceri italiane non sono 47.615, come riferito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ma 37mila, come dimostrato dall’associazione Antigone, quindi con un sovraffollamento del 175%, il più alto in Europa.
Tutti i relatori concordano nel dire che ad un problema così complesso non basta rispondere con una misura “semplice”, e quindi che l’amnistia è necessaria ma non sufficiente.
Lucia Castellano, in un libro in cui racconta la sua esperienza come direttrice del carcere di Bollate, il migliore d’Italia, contro coloro che lo considerano un carcere sperimentale, precisa che è invece un’esperienza che segue appieno le indicazioni della legge; come dire che gli altri istituti penitenziari non lo fanno. Ci vantiamo di avere la Costituzione più avanzata, ma abbiamo la situazione carceraria più degradata d’Europa. Non basta manifestare in difesa della Costituzione; dobbiamo prima di tutto recuperare una cultura costituzionale.
Reparto G11 di Rebibbia, quello in cui più alto è il numero degli stranieri: un ragazzo egiziano affannosamente cerca di far capire alla volontaria di turno una sua richiesta; lui non sa una parola di italiano, lei non conosce l’arabo; il mediatore culturale solo un’indicazione di legge. Dopo qualche settimana la richiesta viene posta in modo comprensibile: «Voglio vedere il mio avvocato; voglio sapere perché sto qui». Alla telefonata, l’avvocato risponde in modo sbrigativo: «Ma che va dicendo? Ha firmato lui la dichiarazione di colpevolezza». Nuovo colloquio con Mohamed, che cerca di raccontare qualcosa di quel che è successo; nuova telefonata all’avvocato; questa volta un po’ più gentile: «Stia tranquillo; le ho mandato una lettera con una parte scritta in arabo». Nuovo colloquio. Mohamed presenta la lettera dell’avvocato; lei gli sorride e lui: «Ma io non so leggere...». Questa volta l’avvocato qualcosa intuisce e va a trovare il ragazzo, insieme con un interprete. Due giorni dopo Mohamed è libero. Era stato fermato dai carabinieri vicino ad un posto in cui era stato commesso un furto; lo avevano interrogato – eppure, la legge dice che deve essere presente il mediatore culturale – e poi gli avevano presentato un verbale da firmare. Cosa ci fosse scritto certo Mohamed non l’ha capito, ma qualcuno doveva avergli detto che è importante almeno imparare a mettere la propria firma.
E Kudra, il giovane del Burundi che in Belgio aveva l’asilo politico e tutti i documenti regolari; con leggerezza presta i suoi documenti ad uno del suo Paese e viene arrestato insieme con altre 80 persone con l’accusa di traffico internazionale di droga; in casa sua non è stato trovato niente, ma è straniero e per di più nero; possibile che non sia colpevole? Ad ogni udienza qualcuno viene assolto, ma il processo, tra primo e secondo grado, dura anni. Intanto Kudra chiede di essere iscritto a scuola; in Belgio frequentava l’università, vuole prendere il diploma e frequentare quella italiana. Si oppone l’ispettore di reparto; vuole prima conoscerlo bene, poi si vedrà. Si tratta solo di scendere al piano terra, non di andare in giro per Roma! Dopo un anno arriva l’iscrizione, ma un professore dice che, visto che lui ha una pena lunga, è meglio iscriverlo alla prima classe. Che negli anni della pena possa laurearsi non gli viene in mente.
Kudra si annoia, i suoi compagni di classe hanno preso la licenza media l’anno prima in carcere. Una volontaria gli passa libri da leggere; e più legge, più si annoia in classe. Con lei invece discute di tutto; a lui interessa l’impegno politico; sogna che nel suo Paese si arrivi ad una pacificazione tra le diverse etnie.
Poi, due anni fa, Kudra e un detenuto rumeno escono per decorrenza termini (la sentenza di appello non è stata ancora emessa); il giorno dopo il rumeno è già nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria; Kudra telefona dal Belgio; vuole aspettare lì l’emissione della sentenza. Poi silenzio; totale, senza scampo; la condanna gli era stata confermata e lui non vuole tornare nel carcere italiano. Per un nigeriano ci son voluti più di otto anni per vedere riconosciuta la sua innocenza.
Cosa l’esperienza del carcere italiano abbia prodotto in Mohamed e Kudra è difficile dirlo; ma non è difficile condividere l’affermazione con cui Glauco Giostra, professore all’università “La Sapienza” di Roma e capo del Consiglio superiore della Magistratura, ha concluso il suo intervento al convegno: «Quello italiano è un popolo mosso da un insaziabile desiderio di ingiustizia».
* Volontaria per il Vic-Caritas a Rebibbia femminile e a Rebibbia nuovo complesso; già insegnante di Lettere
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