Quando trabocca “il vaso di sangue e di dolore”. Il Messico scopre di non avere più paura
Tratto da: Adista Documenti n° 2 del 17/01/2015
DOC-2685. SALTILLO-ADISTA. La voce profetica del vescovo di Saltillo mons. Raúl Vera López si è alzata con straordinaria durezza contro il governo del presidente messicano Enrique Peña Nieto, a cui il vescovo non ha risparmiato proprio nulla, nell’omelia pronunciata in occasione del pellegrinaggio dei preti e dei seminaristi della sua diocesi al santuario di Guadalupe, lo scorso 5 dicembre. Al centro delle critiche, naturalmente, il caso dei 43 studenti della scuola Normale Rurale di Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero, scomparsi il 26 settembre scorso (quando la polizia del municipio di Iguala ha sparato contro i giovani che protestavano contro la riforma dell’istruzione, uccidendone sei e ferendone altri 25, praticamente sotto gli occhi dell’esercito). Un crimine di Stato, come lo ha definito mons. Vera López, uno dei più attivi difensori della causa dei lavoratori e di tutti gli oppressi, respingendo di fatto il maldestro tentativo del presidente di scaricare le responsabilità dell’ennesimo massacro sulle autorità municipali e sul crimine organizzato, fino all’indecenza, come sottolinea Gilberto López y Rivas su La Jornada (6/12), «di cercare di mimetizzarsi tra le vittime e tra i loro alleati assumendo, come padre di famiglia e come messicano, il grido “Siamo tutti Ayotzinapa”». Un grido che ha animato una mobilitazione sociale impensabile prima del 26 settembre - persino alcuni calciatori, ricorda Eduardo Galeano (Adital, 8/12), hanno festeggiato i loro gol disegnando in aria con le dita il numero 43 - con un danno senza precedenti alla credibilità del governo, chiaramente incapace non solo di far luce su quanto accaduto, ma anche di spiegare, come evidenzia un editoriale della Jornada (27/11) scritto a due mesi dai fatti di Ayotzinapa, «una catena di errori e omissioni» da parte del governo dello Stato di Guerrero e di quello federale, essendo per esempio ben note ad entrambi, già prima del massacro, le gravi accuse che pesavano sul sindaco di Iguala e su sua moglie. Dopo anni di scomparse forzate, di fosse comuni, di sequestri, di assassinii, di femminicidi, e, dall’altro lato, di una evidente incapacità di articolazione e di una sostanziale apatia da parte della società civile, la strage di giovani di poverissime zone rurali che studiavano per diventare insegnanti «ha fatto traboccare il vaso di sangue e dolore», secondo le parole di Adolfo Gilly (La Jornada, 26/11), travolgendo, in una stessa ondata di disprezzo e di rifiuto, il governo, i partiti e tutta la struttura istituzionale dello Stato. Il fatto è che, come evidenzia in un manifesto un gruppo di rappresentanti della cultura messicana, «i governanti hanno perso il controllo della paura» come strumento di controllo sociale e «la furia che hanno scatenato si ritorce contro di loro»: «L’accumulazione di barbarie e crudeltà ha generato la giusta rabbia e questa ha superato, o comincia a farlo, la paura».
Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci dell’omelia di mons. Vera López, tratta dal sito della sezione messicana del Tribunale Permanente dei Popoli (www.tppmexico.org). (claudia fanti)
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