Un grido di allarme
Tratto da: Adista Documenti n° 6 del 14/02/2015
(…). Il problema climatico è piuttosto semplice. Nel momento in cui l’attività umana produce la maggiore quantità di gas a effetto serra, vengono distrutti (…) gli spazi naturali di assorbimento di tali gas: le foreste e gli oceani. Il risultato è che il pianeta ha perso la capacità di rigenerarsi e che ora avremmo bisogno di un pianeta e mezzo per ripristinare l’equilibrio della natura.
Sono tre i luoghi del mondo che ospitano riserve forestali tali da svolgere una funzione di regolazione degli ecosistemi regionali: l’Asia del sud-est (Malesia e Indonesia), l’Africa centrale (Congo) e l’Amazzonia. Nel primo caso, la riserva forestale è praticamente scomparsa: Malesia e Indonesia hanno distrutto oltre l’80% delle foreste originarie per far spazio a piantagioni di palma africana e di eucalipto. In Congo, le guerre avevano fermato lo sfruttamento del legname e l’estrazione mineraria, ma tali attività sono riprese negli ultimi 10 anni. L’Amazzonia è in pieno processo di devastazione.
LE FUNZIONI GEOLOGICHE DELLA FORESTA AMAZZONICA
Con 4 milioni di chilometri quadrati in nove Paesi, la foresta amazzonica immagazzina un totale di 109.660 milioni di tonnellate di C02, vale a dire il 50% dell’anidride carbonica delle foreste tropicali del pianeta. 33 milioni di persone vivono nella regione, tra cui 400 popoli indigeni.
Lo studio “Il futuro climatico dell’Amazzonia” dello scienziato brasiliano Antonio Donato Nobre descrive in maniera impressionante le funzioni della foresta amazzonica, raccogliendo gli studi realizzati in Brasile. La storia geologica dell’Amazzonia è assai antica. Ci sono voluti decine di milioni di anni per costruire la base della biodiversità che ha fatto di questa foresta una macchina di regolazione ambientale di alta complessità. Si tratta, spiega l’autore, di un oceano verde relazionato all’oceano gassoso dell’atmosfera e all’oceano azzurro dei mari.
Le sue principali funzioni sono cinque. Per prima cosa, la foresta mantiene l’umidità dell’aria, rendendo possibili le piogge in luoghi lontani dagli oceani, grazie alla traspirazione degli alberi. E le piogge abbondanti, ed è la seconda funzione, aiutano a conservare un’aria pulita. In terzo luogo, la foresta rende possibile un ciclo idrologico benefico anche in condizioni avverse, perché la foresta assorbe al suo interno l’aria umida degli oceani, assicurando le piogge in qualunque circostanza. La quarta funzione è quella di portare l’acqua attraverso i fiumi su grandi distanze, impedendo la desertificazione, soprattutto all’est della cordigliera. Infine, la foresta protegge da fenomeni climatici estremi grazie alla densità degli alberi, che impediscono le tempeste alimentate dal vapore acqueo. È per tali motivi che questa eccezionale ricchezza naturale deve essere difesa.
LA DEVASTAZIONE DELLA FORESTA
Gli effetti della degradazione in corso della foresta amazzonica sono già visibili: riduzione della traspirazione, modificazione del ciclo delle piogge, prolungamento della stazione secca. Solamente in Brasile, fino al 2013, si è registrata una deforestazione pari a 763mila chilometri quadrati, vale a dire tre volte lo Stato di São Paulo o 21 volte il Belgio, o anche 184 milioni di campi da calcio.
Si ritiene che una riduzione del 40% della foresta significherebbe l’inizio di un processo di transizione verso la savana. Attualmente, è stato distrutto il 20% e un altro 20% è seriamente danneggiato. Secondo una dichiarazione della Fao in occasione della Giornata Internazionale delle Foreste, il 21 marzo 2014, se la tendenza resta immutata, entro 40 anni, al posto della foresta amazzonica, vi sarà solo una savana con alcuni boschi. Per questa ragione, l’autore dello studio chiede un’inversione radicale, nella convinzione che la sfida possa ancora essere vinta. Di conseguenza, propone una restaurazione della foresta distrutta, una diffusione delle conoscenze presso l’opinione pubblica e l’assunzione di decisioni urgenti da parte dei dirigenti politici.
Ma, di fatto, cosa osserviamo? Tutti i Paesi che possiedono nel loro territorio una parte della foresta amazzonica hanno buone ragioni per usarla. Nei Paesi neoliberisti domina l’idea di sfruttare le risorse naturali come via per l’accumulazione di capitale. Nei Paesi progressisti gli argomenti sono diversi: c’è bisogno di estrarre le ricchezze naturali e di promuovere le esportazioni agricole per finanziare le politiche sociali. E nei regimi socialdemocratici il discorso politico contiene una mescolanza dei due argomenti. Ma, qualunque sia il discorso, il risultato è lo stesso.
Nell’Amazzonia occidentale è lo sfruttamento petrolifero che avanza a spese della foresta. Basta visitare una regione come il Putumayo colombiano per osservare gli enormi danni arrecati dalla sola fase della prospezione. Il presidente di Vetra, un’impresa petrolifera canadese, Humberto Calderón Berti, ha dichiarato nel 2014 che, malgrado le difficoltà (caduta del prezzo del petrolio, resistenza della popolazione, guerriglia), non avrebbe lasciato l’Amazzonia, essendo questa un mare di petrolio dalla Sierra de la Macarena fino all’Ecuador e al Perù. Attualmente la compagnia estrae 23mila barili al giorno nel Putumayo colombiano.
In Venezuela nuovi giacimenti sono in attesa di sfruttamento per contribuire, tra altre cose, alla politica di solidarietà dell’Alba. In Ecuador il profetico progetto del Yasuní è stato abbandonato, a causa della mancanza di sostegno internazionale e anche della pressione degli interessi locali, e la frontiera petrolifera continua ad avanzare. In Perù e in Bolivia, si moltiplicano i pozzi di petrolio e di gas. Ovunque, i rifiuti tossici continuano a contaminare acque e suoli per colpevoli negligenze, come nel caso di Chevron (ex Texaco) in Ecuador, o per incidenti nell’estrazione o nel trasporto o semplicemente perché le tecnologie pulite sono troppo costose.(…).
In Ecuador, la Texaco ha immesso nei fiumi dell’Amazzonia più di 16mila milioni di galloni di acqua contaminata (un gallone statunitense è pari a quasi 3,8 litri, ndt). Circa mille pozze di rifiuti tossici continuano a filtrare il petrolio nel suolo ancora dopo 30 anni dall’uscita della compagnia. Nel 1993, 30mila ecuadoriani danneggiati hanno promosso a New York una causa contro la Texaco. Si tratta della maggiore catastrofe di inquinamento petrolifero degli ultimi anni. (…).
Ad est sono le miniere che divorano enormi estensioni di foresta. Nello Stato del Pará, nel nord del Brasile, l’impresa Vale ha ottenuto una concessione di oltre 600mila ettari e lo sfruttamento delle miniere di rame e di oro si aggiunge a quello di ferro, trasformando grandi superfici di foresta in paesaggi lunari. L’attività mineraria è presente anche in varie regioni dell’ovest e del centro. Così, in Perù, nella cordigliera del Condor, l’impresa canadese Afrodita ha abbattuto una parte del parco Ichigkat Muja per attività minerarie. Dal lato ecuadoriano, il giacimento Cóndor-Mirador è al centro di un conflitto con le comunità indigene a causa della mancanza di precauzioni e di studi di impatto ambientale.
Da sud avanzano le monocolture di soia e palma da olio, in forma di grandi rettangoli che, visti da un aereo, appaiono come ferite aperte nel paesaggio. Il Codice forestale brasiliano spiega nell’introduzione che il Paese vuole favorire l’agricoltura moderna, cioè industriale. Il re della soia è il governatore dello Stato del Mato Grosso.
Le centrali idroelettriche occupano principalmente il centro della foresta amazzonica, inondando decine di migliaia di ettari di terra forestale. In Brasile, la diga di Itaipú ha un lago artificiale di 200 chilometri di lunghezza, ricoprendo un’area di 1.400 chilometri quadrati. Per il progetto del Rio Madeira, nello Stato di Rondônia, 10mila persone sono state obbligate a lasciare la propria casa. La centrale idroelettrica di Belo Monte, sul Rio Xingu, ha inondato un’area di 500 chilometri quadrati, pregiudicando 40mila famiglie. La diga di Balbina, nei primi tre anni della sua esistenza, ha emesso 23.750 tonnellate di CO2 e 140mila tonnellate di metano.
Al di là delle misure governative, lo sfruttamento legale o illegale del legname procede con la stessa aggressività. Gli incendi, accidentali o dolosi, distruggono grandi spazi della foresta. Opere pubbliche come strade, condotte, ferrovie e vie per il trasporto fluviale contribuiscono anch’esse alla distruzione ecologica.
Nel cuore di questa problematica ambientale si incontrano milioni di esseri umani colpiti dalla trasformazione dei propri mezzi di sussistenza, dall’espulsione dalle proprie terre ancestrali, dalla colonizzazione dei propri territori e dalla criminalizzazione delle proprie proteste. E a pagare il prezzo di questo progresso sono anche numerose specie viventi, animali e vegetali.
LE DIMENTICANZE DEL DISCORSO UFFICIALE
Nei discorsi ufficiali non si sente parlar molto dei costi di queste politiche, cioè dei milioni di tonnellate di anidride carbonica immessa nell’atmosfera né dell’uso che si fa dei minerali estratti o dei prodotti dell’agricoltura industriale: dell’oro che in gran parte finisce nei depositi delle banche a vantaggio del sistema finanziario; del ferro che viene utilizzato anche per fabbricare armi; della soia che serve ad alimentare il bestiame, che a sua volta produce maggiori quantità di gas a effetto serra di quelle legate al trasporto, e via dicendo. È vero che la responsabilità principale ricade sul Nord, ma la riproduzione dello stesso modello di produrre e di consumare presenta le stesse conseguenze e questo non costituisce, in prima istanza, un problema morale o politico, quanto una questione matematica.
SOLUZIONI
Evidentemente, non si tratta di fare dell’Amazzonia un giardino zoologico né di trasformare i popoli indigeni in oggetti da museo, bensì di adottare una visione olistica della realtà, evitando cioè di frammentarla e di permettere che la logica della crescita economica continui ad offrire l’unico quadro di riferimento, ignorando le esternalità ambientali e sociali, come pure di perseguire politiche a breve termine che non tengano conto del futuro. E tutto ciò può tradursi in misure assai concrete.
Non è neppure in gioco, per i Paesi latinoamericani, la perdita della propria sovranità, consentendo ad altre potenze di imporre una regolamentazione funzionale ai propri interessi, ma si tratta della sfida, per i dirigenti politici, di adottare insieme misure positive per la salvezza della foresta amazzonica in collaborazione con i popoli interessati. L’Unasur potrebbe costituire lo spazio di collaborazione istituzionale per realizzare questo urgente compito.
La crisi che colpisce la regione, con la caduta del prezzo del petrolio e di altre materie prime, può essere l’occasione per prendere provvedimenti. I Paesi che lo faranno saranno immortalati nella storia.
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