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Sinodo sulla famiglia: il dibattito langue,  ma qualcosa si muove

Tratto da: Adista Notizie n° 17 del 09/05/2015

38102 ROMA-ADISTA. Della ragione per cui papa Francesco abbia deciso di convocare due Sinodi sullo stesso tema ci eravamo su queste pagine già soffermati (v. Adista Notizie n. 12/14). Per alcuni, la scelta sarebbe soprattutto dovuta all’intenzione del papa di dare la più ampia possibilità di confronto e dibattito ai padri sinodali, in maniera da giungere se non ad una mediazione condivisa, almeno ad una evoluzione del dibattito, che su alcuni temi particolarmente spinosi (gay, divorziati, convivenze) ha visto finora due fronti irriducibilmente contrapposti; per altri, il doppio Sinodo risponderebbe al desiderio di Francesco di mettere l’accento sulla dimensione della collegialità ecclesiale, attribuendo ai vescovi, riuniti prima in assise “straordinaria”, poi in sede “ordinaria”, di esprimersi su temi tanto cogenti e di portata generale da non poter essere affrontati dal solo pontefice. 

Ci sono poi interpretazioni più “maliziose”: un dibattito a “due round” porterebbe i temi oggetto del dibattito sinodale a perdere progressiva forza presso l’opinione pubblica, dopo esser stati “diluiti” in un tempo superiore ai due anni attraverso un tortuoso percorso di interventi, polemiche e dibattiti, peraltro non decisivi (il Sinodo resta infatti un mero organo consultivo). Da questa doppia manche sinodale il papa trarrebbe inoltre l’indubbio vantaggio di veder confermata la sua aura di pontefice aperto ed in ascolto dei tempi, scaricando – ancora una volta – la responsabilità della mancata riforma ad una gerarchia cattolica rissosa e incapace di leggere ed interpretare i segni dei tempi. 

Bergoglio manterrebbe in questo modo il carisma del pastore-profeta che dice esattamente le cose che ciascuno vorrebbe sentirgli dire, nonostante la Chiesa continui a fare esattamente le scelte che ha sempre fatto, e che l’opinione pubblica laica e cattolica ritiene ormai anacronistiche. 

La parola chiave che risolverebbe l’evidente contraddizione tra questi due poli è la “misericordia”, tema del Giubileo appena annunciato dal pontefice. Misericordia come attenzione, sensibilità, ascolto, sollecitudine pastorale nei confronti delle vicende e delle storie individuali, dentro una cornice dottrinaria che però resterebbe inalterata. Esempio eclatante di questa politica dei “due forni” le parole pronunciate dal papa di ritorno dalla giornata mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, quando ai giornalisti che gli chiedevano della situazione dei gay credenti rispose «Chi sono io per giudicare», salvo poi non modificare di una virgola il magistero ecclesiastico sull’omosessualità (al punto da far problema, a quanto finora si sa, che un gay credente perfettamente conforme al magistero cattolico possa diventare ambasciatore presso la Santa Sede, v. Adista Notizie n. 16/15).

Se poi si aggiunge che è lo stesso Bergoglio, peraltro analogamente a quanto aveva già fatto subito dopo il Sinodo del 2014 con una intervista al quotidiano argentino La Nación (7/12/14), a depotenziare la portata dei risultati del Sinodo che sta per celebrare, riesce più facile ipotizzare un dibattito senza sbocchi pratici, che si esaurirà per consunzione o per mancanza di sintesi, piuttosto che destinato a modificare l’approccio pastorale della Chiesa su temi particolarmente sensibili. Nel corso di un'intervista, in occasione dell'anniversario del secondo anno di pontificato, rilasciata alla giornalista Valentina Alazraki dell'emittente messicana Televisa (13/3) e ripresa anche da Radio Vaticana, Bergoglio ha definito infatti «smisurate» le aspettative che si stanno concentrando sul Sinodo. Comportandosi grosso modo come quei leader sindacali che prima di uno sciopero o di una manifestazione ammonissero i propri lavoratori a non sperare di ottenere particolari risultati dalla mobilitazione in cui si stanno impegnando. 

Dentro il mondo cattolico il dibattito pre-sinodale stenta a decollare per queste ed altre ragioni – ad esempio il questionario destinato alle Chiese locali in vista della preparazione dei lavori sinodali, assai più “fiacco” del precedente – ed anche per l’indubbio clamore e l’attesa che la nuova kermesse annunciata dal papa, il Giubileo che si aprirà il prossimo 8 dicembre, ha suscitato tra credenti e non credenti.


La legge e la misericordia

In ogni caso, qualcosa si muove. Ed in una linea che potrebbe interpretare efficacemente lo “spirito” del pontificato di Francesco e la sua insistenza sul concetto di “misericordia”. P. Innocenzo Gargano, religioso camaldolese e docente di Storia dell’esegesi patristica al Pontificio Istituto Biblico, ha infatti recentemente formulato una nuova, originale proposta sulla questione della riammissione dei divorziati risposati all’eucarestia. In un saggio pubblicato sull’Urbaniana University Journal, quadrimestrale di teologia della Pontificia Università Urbaniana (n. 3/2014), Gargano riprende il discorso della montagna di Gesù e lo interpreta come un programma di liberazione dalle strettoie della osservanza “burocratica” della legge mosaica. La quale peraltro, sottolinea il monaco camaldolese, venne affidata al popolo ebraico attraverso le celebri tavole in due versioni diverse e successive. La differenza tra le prime e le seconde tavole ricevute da Mosè sul Sinai è ritenuta in questo senso molto importante. «Infatti delle prime tavole si dice che erano “tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra” (Es 32,15); e inoltre che “le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 15,16). Delle seconde tavole invece si dice che “Il Signore disse a Mosè: ‘Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato’” (Es 34,1). Apparentemente sembra che si tratti delle stesse tavole, ma in realtà altro erano le tavole “opera di Dio” e altro erano le “due tavole di pietra” che Mosè si era dovuto costruire da sé, sia pure su comando di Dio». Le prime rappresenterebbero la volontà di Dio nella sua originaria purezza; le altre la necessaria mediazione tra questa legge ed un “popolo di dura cervice” che non sarebbe stato in grado di accoglierla così com’era. 

Nel caso del divorzio, continua Gargano, Gesù sembra escludere che «si possa parlare di ingresso nel regno, con il richiamo esplicito al testo di Gen 2,24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle: “Non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto” (Mt 19,6). Quando però, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: “Perché allora Mosè ha ordinato l’atto di ripudio e di ripudiarla” (Mt 19,7), Gesù, cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava un’accondiscendenza che è propria di Dio. Da qui: da una parte la constatazione che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli” (Mt 19,8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica, coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel discorso della montagna: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17)». 

Due atteggiamenti che secondo il biblista e patrista escluderebbero la possibilità di leggere il passo di Gen 2,24 «da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa, come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e in quella cattolica in particolare. In questo caso saremmo infatti di fronte ad una interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale della vita e dell’insegnamento di Gesù, così come appare dal Nuovo Testamento, e dal contesto culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazareth, come risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della montagna, compresa la frase stereotipata: “ma io vi dico” (Mt 19,9)». Insomma, per Gesù lo stesso Mosè aveva piegato le esigenze della Legge inscritta nella natura delle cose fin dal principio «per la durezza del vostro cuore» (Mt 19,8), cioè per tener conto della capacità di comprensione dell’essere umano. «Gesù non nega dunque la gravità di chi è imprigionato nella “durezza di cuore”, e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione è un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che l’obiettivo fissato (skopòs) è una cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) è un’altra». La parola chiave, ancora una volta, è la “misericordia” (e questo riferimento ad uno dei ritornelli del pontificato di Francesco dà forza ancora maggiore all’analisi di Gargano). «Lo sganciamento dell’uomo dalla presa rigida della cosiddetta “littera” della Legge – chiarisce il monaco camaldolese – è in realtà un leit motiv di tutto l’insegnamento di Gesù di Nazareth. Ne fanno testo, e proprio nell’evangelista Matteo, non soltanto il discorso programmatico della montagna», ma anche, «la dichiarazione solenne dello stesso Gesù: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt 12,8)».


Peccatori e penitenti o figli di Dio?

La lettura fatta da Gargano ha l’indubbio vantaggio di essere radicata nell’ermeneutica biblica e di saldarsi con quello che ormai sembra l’approccio scelto da Francesco per il suo pontificato (la legge resta inalterata, ma ciò non esclude comprensione, accoglienza, misericordia nei confronti dei singoli casi), e di avere quindi una maggiore forza argomentativa rispetto ad altre, che hanno però un approccio in generale decisamente più progressista, perché non pensano al divorziato come a un peccatore da perdonare e riammettere ai sacramenti, ma pongono in discussione il concetto stesso di indissolubilità del matrimonio.

Il liturgista Andrea Grillo, facendo riferimento alla tradizione della Chiesa antica, propone infatti nel suo libro Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati (Cittadella, 2014, v. Adista Notizie n. 22/14) che la Chiesa possa ammettere, «in circostanze determinate e non come una legge generale», che il riconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla “inesistenza originaria” della precedente unione, ma potrebbe constatare la “morte del vincolo” e così dischiudere l’orizzonte di un “nuovo inizio” possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale. 

Giovanni Cereti, nel suo celebre libro Matrimonio ed indissolubilità, nuove prospettive (edito dalle Dehoniane nel 1971), parlava delle “specie” del sacramento del matrimonio, che sono i coniugi stessi. Perché il sacramento sussista, è necessario che perduri la materia che lo ha costituito: nel caso dell’eucarestia, le specie del pane e del vino. Secondo la teologia, se le specie dell’eucarestia si degradano, cessa anche la presenza reale di Gesù in esse. Tanto più questo dovrebbe avvenire se i coniugi non sono più legati da vincoli affettivi. Nella sua versione “light”, accolta anche dal card. Walter Kasper e dai settori più aperti dell’episcopato, la tesi di Cereti (esposta in un altro suo “storico” libro, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, ripubblicato da Aracne editore nel 2013) propone la riammissione dei divorziati all’eucarestia dopo un periodo di penitenza, in virtù di una prassi le cui origini Cereti rintraccia nel canone 8 del Concilio di Nicea. 

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