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Siria: guerre e affari lungo la via della seta

Siria: guerre e affari lungo la via della seta

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 36 del 24/10/2015

Sono passati 100 anni da quel novembre 1915 in cui presero il via le trattative che avrebbero portato all’accordo Sykes-Picot, l'intesa segreta tra i governi del Regno Unito e della Francia che, con l'assenso della Russia zarista, definirono le rispettive sfere di influenza in Medio Oriente dopo la prevedibile disfatta dell'Impero ottomano nella Prima guerra mondiale. Accordo con il quale le principali potenze economiche di allora decisero di sacrificare sul tavolo dei loro interessi economici legittime aspirazioni di popoli, tracciando confini che nei decenni successivi sarebbero diventati il centro di contese e conflitti. Un accordo che con il nuovo millennio è iniziato a scricchiolare: era cambiato tutto, le potenze coloniali di allora avevano perso peso, un nuovo protagonista – gli Usa – si sentiva ormai padrone del mondo, imponendo a tutti una visione unipolare. Ma soprattutto diversi erano gli interessi, e se un secolo fa la divisione di quelle terre doveva rispondere a un’ottica di scontro geopolitico che vedeva il fulcro nella Vecchia Europa, oggi il baricentro degli interessi è cambiato e guarda decisamente più ad Oriente. 

Una lunga premessa per aiutare a leggere quanto sta accadendo in Siria e in Iraq con occhi diversi e con la volontà di andare oltre le notizie stereotipate che i nostri media ci regalano. 

I vecchi equilibri non reggono più, la crisi degli ultimi 10 anni ha imposto infatti una velocizzazione dei processi, obbligando gli Stati Uniti ad esplicitare in modo aggressivo e violento i progetti di dominio e controllo di quelle aree. Una regione considerata strategica nella competizione, in un futuro ormai prossimo, con la Cina, in quanto “via della seta”, ovvero asse economico e commerciale fra Occidente e Oriente.

Due esempi. Il primo: nel 2011 (ultimi dati disponibili) la Cina è stato il principale partner commerciale della Siria, con esportazioni valutate in 2mila e 400 milioni di dollari, una cifra relativamente piccola per Pechino, ma che manifesta la capacità della Cina di inserirsi in una regione fino a pochissimi anni fa monopolio dell’Occidente. Il secondo: il Qatar, vera e propria portaerei Usa nella regione, sogna da tempo un gasdotto in Siria, sbocco verso l'Europa. Il Qatar infatti, condivide con l'Iran la sovranità sul più grande giacimento di gas naturale al mondo: il South Pars-North Dome Field, un bacino di gas naturale da 51mila miliardi di metri cubi (pari al 20% delle riserve mondiali), da cui Doha ricava gran parte della sua ricchezza. Per arrivare all'Europa Doha avrebbe bisogno che un gasdotto trasportasse il suo prezioso tesoro attraverso la Siria, provvista di sbocco sul Mediterraneo. Ma Damasco, sotto pressione degli alleati russi, si è sempre opposta al progetto.

In un contesto del genere è chiaro che non sono tollerabili discrasie. La Siria di Assad, e prima ancora l’Iraq, erano anomalie in un contesto di nazioni arabe allineate alla volontà degli Stati Uniti. Sarà un caso, ma gli attacchi non tanto ai governi – definiti di volta in volta regimi attraverso parametri basati sul grado di amicizia (come spiegare altrimenti la storica compiacenza di cui gode l’Arabia Saudita?) – quanto all’essenza dello Stato nazionale in Libia, in Iraq e in Siria sono avvenuti con una sconcertante analogia nel momento in cui i primi due Stati minacciano di abbandonare il tradizionale legame con il dollaro (i primi per tentare la strada di una moneta panafricana e i secondi stuzzicati dalle avance di un euro allora in salute), e Damasco minaccia di bloccare la privatizzazione delle risorse geologiche (la Francia attraverso l’Electricité de France aveva messo gli occhi sulle preziose risorse idriche). Di nuovo affari e interessi che si intrecciano con coincidenze che gettano a mare le presunte ragioni di esportarzione della democrazia, un ritornello che andando a braccetto con l’altro degli interventi “umanitari” ha accompagnato gran parte delle tragedie di questi anni.

Si capisce meglio così cosa sta accadendo in queste settimane in Siria, dove una Russia messa all’angolo dalle politiche espansionistiche della Nato tenta di rialzare la testa, provando a far sentire la sua voce in Siria attraverso un coinvolgimento militare esplicito e diretto, che ha per obiettivo quello di arrivare ad una trattativa vera per una ridefinizione delle aree di influenza nella regione. I raid aerei di questi giorni non a caso mirano a rafforzare il controllo della zona che va dalla costa fino al confine con il Libano, includendo tutta la provincia di Damasco. Una regione che garantisce un collegamento rapido e sicuro fra il Mediterraneo e l’Iran, oggi considerato strategico per gli interessi russi e in futuro anche per quelli cinesi.

Una scelta, quella di Putin, che sembra dare buoni risultati, anche perché si innesta sul fallimento delle politiche dell’amministrazione Obama che in questi anni non è riuscita a portare alla vittoria i ribelli siriani, i quali risultano sempre più marginali, schiacciati fra un esercito siriano lealista che si conferma elemento centrale della tenuta dello Stato nazionale, e le bande jihadiste che strizzano l’occhio ora all’Isis ora ad Al Qaida. 

Rispetto a poche settimane fa per Assad la situazione è notevolmente migliorata. Sotto la copertura dei raid di Mosca le sue truppe hanno riguadagnato terreno. E se appena un mese fa sembrava condannato ad uscire di scena, oggi il presidente siriano può legittimamente aspirare a sedersi ad un tavolo negoziale respingendo ogni precondizione. Un tavolo però, è inutile farsi illusioni, che difficilmente riuscirà a ribaltare le logiche che un secolo fa portarono a Sykes-Picot. 

Maurizio Musolino è giornalista, già direttore del settimanale “La Rinascita”

* Immagine di Christiaan Triebert, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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