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Lettera ai giudici. L'autodifesa di don Milani nel processo che si chiudeva 50 anni fa

Lettera ai giudici. L'autodifesa di don Milani nel processo che si chiudeva 50 anni fa

Esattamente cinquant'anni fa si concludeva, con l'assoluzione, il processo di primo grado contro don Lorenzo Milani, "reo" di aver scritto una lettera ai cappellani militari in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, a quel tempo vietata dalla legge. Alla sbarra, insieme a lui, Luca Pavolini, direttore di Rinascita, settimanale del Partito Comunista Italiano, colpevole di aver pubblicato la lettera dello scandalo (su ricorso del pubblico ministero, la Corte d’Appello modificò poi la sentenza di primo grado e condannò lo scritto, ma don Lorenzo era già morto). Di seguito la Lettera ai giudici cui don Milani, troppo malato per presenziare al processo, affidò la propria autodifesa.


Barbiana 18 ottobre 1965

Signori Giudici,

vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da tempo malato.

Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza.

La malattia è l'unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l'accusa che mi si fa in questo processo.

Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini.

Una precisazione a proposito del difensore.

Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d'ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo.

Ho capito le sue ragioni e non ho insistito.

Un'altra precisazione a proposito della rivista che è coimputata per avermi gentilmente ospitato. Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 Febbraio.

Solo successivamente (6 Marzo) l'ha ripubblicata Rinascita e poi altri giornali.

È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista.

Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomenti. Ma essa non meritava l'onore d'essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza.

Il fatto non giova alla chiarezza cioè all'educazione dei giovani che guardano a questo processo.

Verrò ora ai motivi per cui ho sentito il dovere di scrivere la lettera incriminata. Ma vi occorrerà prima sapere come mai oltre che parroco io sia anche maestro.

La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati.

Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa.

Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola.

Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico.

La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme.

COME MAESTRO

Il motivo occasionale

Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un «Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana». Più tardi abbiamo saputo che già questa dizione è scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato.

Il testo è infatti gratuitamente provocatorio. Basti pensare alla parola «espressione di viltà».

Il prof. Giorgio Peyrot dell'Università di Roma sta curando la raccolta di tutte le sentenze contro obiettori italiani.

Mi dice che dalla liberazione in qua ne son state pronunciate più di 200. Di 186 ha notizia sicura, di 100 il testo. Mi assicura che in nessuna ha trovato la parola viltà o altra equivalente. In alcune anzi ha trovato espressioni di rispetto per la figura morale dell'imputato. Per esempio: «Da tutto il comportamento dell'imputato si deve ritenere che egli sia incorso nei rigori della legge per amor di fede» (2 sentenze del T.M.T. di Torino 19 Dicembre 1963 imputato Scherillo, 3 Giugno 1964 imputato Fiorenza). In tre sentenze del T.M.T. di Verona ha trovato il riconoscimento del motivo di particolare valore morale e sociale (19 Ottobre 1953 imputato Valente, 11 Gennaio 1957 imputato Perotto, 7 Maggio 1957 imputato Perotto). Allego il testo completo dei risultati della ricerca che il prof. Peyrot ha avuto la bontà di fare per me.

Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita.

Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.

Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».

Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito.

Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare.

Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.

Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d'una «guerra giusta». D'una guerra cioè che fosse in regola con l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.

Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri:

Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio.

Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con «interviste» piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle «interviste» senza curarsi di controllarne la serietà.

Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965).

La nostra lettera è stata incriminata.

Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale.

Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione.

Un mio figliolo ha per professore di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato. Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile.

Non toccava a lui chiamare «vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore» quei 31 giovani.

I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui.

E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.

Il motivo profondo

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola.

E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona.

Continua a leggere la Lettera di don Milani qui.

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