Il sogno e l'Europa
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 15/04/2017
Ci sono almeno due Europe. Non mi riferisco all’Europa a due velocità di cui si è parlato tanto prima e dopo il vertice di Roma. Un concetto, questo, che fa parte dell’alchimia politica che caratterizza da tempo ogni vertice europeo. Dove i leader dei diversi Paesi partecipano non per cercare, con fantasia, creatività e coraggio, di dar corpo al sogno dei confinati di Ventotene e dei Padri fondatori, ma spesso soltanto per difendere ognuno i propri interessi. In una sorta di braccio di ferro che produce sempre risultati al ribasso. Il copione si è ripetuto anche a Roma, il 25 marzo scorso. Fino tarda notte ci sono state trattative infinite per limare un testo che, pur di accontentare tutti, non accontenta nessuno. Dove si sono presi impegni di qui a dieci anni senza darsi scadenze e tempi precisi. Mentre si continuavano e si continuano a progettare e costruire muri, dentro cui ogni Stato possa sentirsi protetto. Si è vista un’Europa impaurita, che deve far i conti con la Brexit, in cui contrattare l’uscita dall’Unione di un Paese, la Gran Bretagna, che di fatto in Europa non è mai entrata perché ha sempre goduto di privilegi e di eccezioni. Che è percorsa da sospetti e muri di divisione. Vista e percepita al massimo come male necessario e non come progetto da realizzare. Soprattutto un’Europa lontana dalla gente. Che ha paura della gente. Proprio per questo, anche percorsa da pericoli. Sanno bene i governanti europei che le politiche comunitarie portate avanti fino ad ora hanno messo in moto nazionalismi e sovranismi che rischiano di far implodere l'Unione stessa.
Roma ha dovuto chiudersi, blindarsi e porsi in stato d’assedio per ricevere il vertice. Zone rosse, luoghi in cui era impedito perfino camminare a piedi, forze dell’ordine in stato di allerta, deviazioni del traffico. Un’intera città posta sotto assedio per proteggere i capi di Stato e di governo, tenendoli il più possibile distanti dal popolo che dovrebbero rappresentare. La fotografia di una distanza incolmabile. «Purtroppo – ha detto loro papa Francesco – si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione».
Questa Europa ha dimenticato i fondamenti stessi su cui era stata disegnata: essere una comunità che avesse a cuore la vita di tutti i suoi cittadini, mettendo insieme intelligenze e risorse per costruire una società solidale. Una comunità capace di superare differenze ed inimicizie, per accogliere ogni diversità e gestirla come ricchezza. Una comunità aperta e accogliente, che distruggesse muri e costruisse ponti, fondata su uno Stato sociale che garantisse a tutti i suoi cittadini i diritti fondamentali. Soprattutto una comunità democratica, dove tutti e ciascuno potessero sentirsi a casa. L’Europa che si è trovata a Roma è apparsa invece impaurita e in difesa. Certo, la politica ha i suoi tempi. Per arrivare a questo occorre rivedere i trattati. Ma occorre innanzitutto rinnovare uno spirito che in questi 60 anni è stato soffocato dalla burocrazia, da piccoli interessi nazionali e, soprattutto, dalla paura.
Ma esiste anche un’altra Europa. Non solo quella dei ragazzi dell’Erasmus che lungo gli anni si sono incontrati, hanno stretto amicizia e hanno cominciato a stimarsi e a collaborare insieme. È anche l’Europa dei gruppi di ricerca scientifica che collaborano al di là delle differenze nazionali. Delle piccole o grandi associazioni o organizzazioni non governative che cooperano in progetti di solidarietà e di accoglienza. L’Europa che si sta mescolando, quasi senza accorgercene, perché ragazze e ragazzi di diverse nazioni si sposano e vanno a convivere. L’Europa delle persone che a Ventimiglia rischiano di essere denunciate e processate perché aiutano i profughi. L’Europa degli abitanti di Lampedusa e di Lesbo. E si potrebbe continuare a lungo. Si parla poco di questa Europa. Ma esiste realmente e si realizza ogni giorno – al di là dei trattati, che certamente vanno rivisti – sulla strade, nelle piazze, nei luoghi dove vive la gente.
Ma occorre riconoscerla e darle voce, riportando la politica alle questioni vere che sanno di vita di tutti i giorni. Perché altrimenti continuerà ad apparire lontana, spesso nemica. Ma per farlo occorre avere un’idea. Un sogno che deve esser pari al sogno di Ventotene. Nessuno si scalderà mai il cuore e si metterà in viaggio in nome del pareggio di bilancio, del debito, del rispetto dei parametri.
Nonostante tutto, continuo a pensare che non sia l’Europa vera quella che, per celebrare i sessant’anni dalla posa della prima pietra, ha bisogno di istituire zone rosse, blindare città e costruire muri di divisione. Quella vera era ed è altrove. Occorre cercarla. Ma per trovarla è necessario uscire dal palazzo e tornare per strada.
* Eugenio Melandri, saggista e giornalista, missionario saveriano e pacifista negli anni ‘70 e ‘80, già parlamentare europeo con Democrazia Proletaria, è oggi presidente dell’organizzazione “Chiama l’Africa”
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