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TOTO' RIINA AI DOMICILIARI? SULLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, IL MONDO CATTOLICO SI SPACCA

TOTO' RIINA AI DOMICILIARI? SULLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, IL MONDO CATTOLICO SI SPACCA

Tratto da: Adista Notizie n° 22 del 17/06/2017

38981 ROMA-ADISTA. Fuori dal carcere perché anziano e gravemente malato? Sulle aperture della Cassazione in merito alla possibilità di una commutazione della pena per Totò Riina, il mondo politico, quello associativo e quello cattolico si sono spaccati.

Nel maggio del 2016, il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dai legali del capo di Cosa Nostra – 86 anni, in carcere dal 1993 – affermando che Riina gode di tutte le cure necessarie, che il carcere non aggrava il suo già compromesso stato di salute e che il boss vanterebbe ancora un ruolo cardine nell'organizzazione mafiosa. Oggi la Suprema Corte ha invece puntato il dito contro il tribunale bolognese chiedendogli di motivare meglio il rifiuto del differimento della pena. Per quanto la parabola criminale di Riina sia notoriamente abominevole, resta inviolabile, secondo la Corte, il diritto di morire dignitosamente sancito dalla Costituzione e dalla Carta europea dei Diritti umani che bandisce i «trattamenti inumani e degradanti». Inoltre, afferma ancora, è tutto da dimostrare l'attuale coinvolgimento di Riina negli affari mafiosi.

La sentenza della Cassazione ha raccolto il plauso delle associazioni impegnate per la tutela dei diritti dei detenuti. «Uno Stato forte e democratico non fa mai morire nessuno in carcere deliberatamente», ha tuonato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. «La sentenza della Corte di Cassazione sul caso Riina – ha fatto eco il Partito Radicale – è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico». Indignato, invece, il parere dei familiari delle vittime di mafia. Secondo Sonia Alfano – politica siciliana e figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia per le sue inchieste scomode – «tanti altri detenuti sono morti nelle carceri italiane durante il loro periodo di detenzione, eppure i togati di Cassazione non si sono pronunciati in alcun modo a loro difesa». «Uomini e donne, servitori di questo Paese, sono stati fatti trucidare da questa belva che non hai mai accennato ad alcun segnale di pentimento. Eppure, cari giudici, anche loro avevano diritto ad una morte dignitosa». Dello stesso avviso Nando e Rita Dalla Chiesa, figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato a Palermo nel 1982. «Penso che mio padre – dice Rita – una morte dignitosa non l'ha avuta».

Senza tentennamenti il parere di Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia: «La dignità della persona va garantita in carcere e, per quanto riguarda la situazione di Riina, come Commissione Antimafia riteniamo che sia garantita da strutture sanitarie d’eccellenza che sono nel carcere in cui è detenuto. La sua scarcerazione sarebbe un segnale di cedimento dello Stato nei confronti della mafia che non ci possiamo permettere».

Il fondatore e presidente di Libera, don Luigi Ciotti, ha tentato una sintesi tra le visioni in campo, divise tra il riconoscimento dell’universalità dei diritti e il grave valore simbolico di un'eventuale scarcerazione (l'ennesima abdicazione dello Stato di fronte alla criminalità organizzata): «C’è un diritto del singolo, che va salvaguardato» (Sir, 6/6), ha detto il fondatore e presidente di Libera. «Ma c’è anche una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni». Insomma, il diritto alle cure e ad una morte dignitosa deve essere garantito a tutti i detenuti, nessuno escluso. «Certo – conclude – c’è una persona malata, al quale lo Stato deve riservare un adeguato trattamento terapeutico a prescindere dai crimini commessi, ma c’è anche una vicenda di violenza, di stragi e di sangue che ha causato tante vittime e il dolore insanabile dei loro famigliari».

Sempre il 6 giugno, anche il settimanale dei Paolini Famiglia Cristiana è sceso in campo per dire la sua. La Cassazione, ha scritto Francesco Anfossi, «ha semplicemente affermato un principio basilare di uno Stato di diritto valevole per qualsiasi uomo e dunque anche per il “capo dei capi”». L'articolo ha poi sottolineato il rischio di un eventuale trasferimento del boss a Corleone, dove la sua casa potrebbe trasformarsi in una sorta di santuario, ma ha anche riconosciuto alla “Belva” la possibilità di trasferirsi «in un hospice per esempio, o in un ospedale, come avviene per tanti italiani. Insomma, ha cofnermato il giornalista, «nessun uomo dovrebbe morire in carcere, figuriamoci in una cella del 41 bis che è poco più di un canile», «eppure questa semplicissima affermazione di principio ha scatenato gli istinti più viscerali in un Paese che si dice civile e cristiano, la culla del diritto penale e civile per definizione». A mobilitare l'animosità popolare non sono solo ragioni legate alla sicurezza e alla possibilità di rilanciare l'attività criminale del boss, è il pensiero di Famiglia Cristiana, su questo punto molto critica: «Si strumentalizza il dolore» dei familiari delle vittime di mafia, «che è individuale, per sostituirsi alla giustizia, che parla a nome di tutti». «Non parliamo poi di quello che gira nei social networks – ha aggiunto Anfossi, commentando la sdegnata mobilitazione online del “popolo della rete” –, le suburre postmoderne dove la corsa al peggio del peggio è diventato il pane quotidiano, inarrestabile e incontrollabile come la folla impazzita di Torino. Nel reame di Facebook vige a furor di popolo la legge del taglione». Negando la dignità al moribondo Riina, «siamo scesi allo stesso livello degli ometti mafiosi e della loro morale primitiva. Perché è questo quello che questo disgraziato Paese, offuscato dalla rabbia e dall’ignoranza, non vuole capire: Riina deve morire con dignità soprattutto per noi stessi, per rispetto nei confronti della nostra superiorità civile e cristiana rispetto a quella dei mafiosi».

Identica la dichiarazione, seppur nella forma lapidaria imposta dal social network, espressa dal settimanale in un tweet del 6 giugno, al quale ha replicato, con toni opposti, il teologo cattolico Vito Mancuso: «Se vogliamo non dico sconfiggere ma almeno combattere con onore la mafia e soprattutto onorare le vittime, il capo di Cosa nostra deve rimanere dov'è». 

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