
Repressione in Sudan: democrazia, un sogno sempre più lontano
Nella notte tra il 10 e l’11 aprile scorso, il padre-padrone del Sudan, Omar Hassan al-Bashir, era stato costretto alle dimissioni e poi arrestato, in seguito alle polemiche di piazza esplose per l’aumento dei generi di prima necessità. In quell’occasione, l’esercito aveva ritenuto opportuno scaricare il proprio leader e assecondare la “rivolta del pane”, maturata in seno alle classi medie e ai professionisti sudanesi, mettendosi alla guida di una transizione che garantiva più breve possibile e che avrebbe dovuto culminare con un passaggio di poteri ai civili, in vista di nuove elezioni.
Al momento, però, il consiglio militare non ha ancora passato la palla e resta saldamente al potere, gli accordi per la transizione sono tutti naufragati e, a detta dell’esercito, le elezioni saranno indette forse fra 9 mesi. Il patto di fiducia tra militari e piazza, che si stava faticosamente costruendo seppur con equilibri precari, si è dunque spezzato definitivamente e nelle strade, i primi di giugno, sono riesplosi moti di protesta, questa volta repressi con estrema violenza dalle forze di sicurezza e dalle milizie paramilitari. Numerosi testimoni denunciano l’impiego addirittura dei cosiddetti janjaweed, gruppi armati di “demoni a cavallo”, famosi per aver seminato morte e terrore in Darfur, oggi accusati di reprimere brutalmente i manifestanti. E mentre l’esercito parla di «solamente» 46 morti accertati nei recenti scontri, altre fonti raccontano che le forti correnti del Nilo hanno riportato a galla altri 40 o 50 corpi di manifestanti che “qualcuno” aveva zavorrato per farli scomparire nelle profondità del fiume.
Dopo 30 anni di regime, la transizione, che si auspicava pacifica, si colora di sangue, e il Paese deve ancora rimandare i suoi sogni di democrazia e libertà. Di fronte a questo stato di persistente instabilità, il 6 giugno l’Unione Africana ha fortemente denunciato le violenze e ha sospeso il Sudan, dichiarando di poterlo riammettere solo quando i poteri saranno passati ad un consiglio di transizione civile.
In chiusura della messa di Pentecoste, il 9 giugno, anche papa Francesco ha espresso forte «preoccupazione» su quanto sta accadendo nel Paese africano: «Preghiamo per questo popolo, perché cessino le violenze e si ricerchi il bene comune nel dialogo». L’appello pronunciato prima della recita del Regina Coeli in piazza San Pietro è stato rilanciato anche dall’arcivescovo di Khartoum, mons. Michael Didi Adgum Mangoria, il quale ha invitato militari e opposizione al dialogo costruttivo. Gli scontri di inizio giugno, ha denunciato in un’intervista a Vatican News, rappresentano un «disastro» perché «tanti giovani hanno perso la vita». Forte del sostegno di Francesco e certo che «la violenza non porta a nulla», il presule invita alla preghiera e al digiuno, ma la sua idea è anche quella, più concreta, di tentare la mediazione, di «consultare gli altri capi delle Chiese e, se possibile, parlare con le persone che hanno adesso il potere, quindi con il consiglio militare, e con le opposizioni».
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