
Tra religione e ateismo, tertium datur. Un libro di Augusto Cavadi
Tratto da: Adista Notizie n° 7 del 26/02/2022
40980 ROMA-ADISTA. La riflessione contenuta nell’ultimo libro di Augusto Cavadi, O religione o ateismo? La spiritualità «laica» come fondamento comune (Algra 2021, p. 136, 12€: il libro può essere richiesto anche ad Adista, tel. 06/6868692; e-mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul sito www.adista.it), si inserisce in una significativa produzione degli ultimi anni che si interroga su cosa avvenga a modelli, credenze, verità da credute, professate, ritenute incrollabili, ma ora «minate – lo scrive l’autore stesso nell’introduzione – dall’incrocio di saperi, ipotesi, scenari sempre più sconvolgenti che provengono dalle scienze naturali e umane». Insomma, «come l’essere umano, oggi, si possa legittimamente auto-interpretare nel contesto dell’universo in ebollizione».
Si tratta del filone che viene definito “paradigma post-religionale”, che Adista ha contribuito a indagare e diffondere, soprattutto attraverso la Collana “Oltre le religioni” (i cui ultimi volumi sono stati pubblicati dall’editore Gabrielli). Cavadi riflette a partire da queste acquisizioni, su un originale crinale tra le certezze dogmatiche dei credenti e quelle degli atei.
Una prima parte del volume discute i termini del dibattito in corso e il loro significato. Alla religione, i teologi, intellettuali, filosofi post religionari preferiscono la categoria “spiritualità”. «Ma non è forse un cadere dalla padella alla brace?», si chiede Cavadi. «La “religione” non comporta una dimensione sociale, una presenza nella storia, una misurabilità oggettiva alle quali la “spiritualità” può sottrarsi, rintanandosi nella sfera dell’individualità, della passività e della irrilevanza?». Certo, non tutti danno lo stesso significato al termine religione. Il filosofo statunitense Ronald Dworkin, ad esempio, predilige il termine “religione” per esprimere ciò che altri definiscono “religiosità” o, meglio ancora, “spiritualità”. Con religione, «Dworkin parla infatti di “visione del mondo”, “convinzioni”, “emozioni”; insiste dunque sulla dimensione cognitivo- psicologica, sottovalutando almeno due aspetti costitutivi dell’atteggiamento religioso: la pratica e la socialità. Infatti la religione non è soltanto una teoria e non è soltanto un atteggiamento individuale». Per Cavadi la religione è come «il corpo di quell’organismo vivente la cui anima dovrebbe essere la fede: una religione senza fede amante sarebbe un sarcofago vuoto; ma una fede amante – incapace di costruirsi una tenda nel tempo per abitare, sia pur provvisoriamente, la terra degli uomini – sarebbe un fantasma impalpabile. L’esperienza quotidiana ci pone innanzi casi di fede intensa veicolata da nessuna religione (o quasi) e di religione vistosa animata da una fede (tendenzialmente) nulla». Per questo Cavadi preferisce rendere l’uso del termine religious in Dworking con “religiosità” (o “spiritualità”). Se infatti per Dworking è possibile una religione senza Dio, Cavadi ritiene piuttosto che «senza Dio è possibile non una “religione”, semmai una “religiosità”. E, a maggior ragione, una “spiritualità” (non religiosa). «Tutti gli esseri umani possono vivere una “spiritualità”»; «una porzione di quanti vivono una “spiritualità” possono declinarla in senso “religioso” (e sono quanti accettano – in cuor proprio e tendenzialmente nelle scelte concrete di ogni giorno – le leggi dell’universo e della vita, sia riconoscendo in esse una valenza divina di stampo panteistico sia ritenendo di non avere ragioni sufficienti per affermarlo)»; «una porzione, ancor più ristretta, di persone animate da “religiosità”, decidono di appartenere inoltre a una determinata “religione” (e dunque si riconoscono in testi sacri, in una dottrina teologica, in una liturgia canonica, in una morale ben articolata e così via)».
Inoltre, «ogni mortale che s’interroghi sulla propria vita, e sul cosmo nel quale è inserita, attesta – più o meno riflessivamente – una propria spiritualità. Forse egli “vede la totalità dell’universo” solamente “come un ammasso di gas ed energia di dimensioni non calcolabili”, ma ciò non lo priva dal “fare l’esperienza” del “misterioso” nel senso in cui ne parlava Einstein: “la fonte di tutta la vera arte e la vera scienza” che provoca in noi “l’emozione della meraviglia, del rapimento e del timore reverenziale” (sentimenti senza i quali il soggetto è “come se fosse morto: i suoi occhi sono chiusi”). Si tratta di “un’esperienza emotiva la cui origine e il cui contenuto possono essere spiegati dal vantaggio evolutivo o da un qualche bisogno psicologico profondo”? Forse sì, forse no. Ma – quale che sia l’interpretazione che ne diamo – il dato esperienziale è indubbio: chi lo registra nella propria biografia, chi non lo misconosce né reprime ma anzi lo coltiva sino a farne un habitus, assume gradualmente un’attitudine spirituale al cospetto dell’universo.
Essa, spiega Cavadi è accessibile a tutti, necessaria e basilare; ma per molti non è sufficiente. «Può evolvere (o degradare: a seconda dei nostri criteri di giudizio) in atteggiamento religioso, tipico di chi vede “la totalità dell’universo” come “un ordine complesso e profondo che risplende di bellezza”». «L’atteggiamento del religioso (che pur non aderisca a una religione specifica, dottrinariamente e liturgicamente organizzata) di fronte al Pluriverso è analogo a quanto Diogene Laerzio racconta di Socrate a proposito degli scritti di Eraclito: ciò che ne capiva era eccellente, dunque presumeva che lo fosse anche tutto il resto che non capiva».
Per l’autore esiste quindi oggi «una vasta terra-di-nessuno, ma potenzialmente per ciò stesso di tutti, tra la sfera delle religioni tradizionali, istituzionali, storiche e il loro rifiuto netto, inesorabile. È la terra della ricerca, del dubbio, delle domande, delle esperienze, della spiritualità filosofica, della mistica laica o come altrimenti la si voglia nominare. Ho scritto “tra”, ma non è esatto: questo terreno è, in realtà, “prima” e “alla base” di ogni ulteriore opzione “religiosa” o “a-religiosa”. Non in linea di fatto, ma in linea di diritto, costituisce l’humus originario, la matrice, senza cui ogni altra opzione di pensiero e di vita rischia l’inautenticità. Ci è toccato di vivere un’epoca di incertezza intellettuale, di inquietudine etica, di disorientamento politico: è solo un’epoca di segno negativo? O non piuttosto l’occasione storica per ripartire da un terreno più solido e più fertile, dalla sintassi elementare, da ciò che di meglio l’humanitas – nella sua tragica ambivalenza – ha saputo maturare in millenni di evoluzione?».
D’altra parte, incalza l’autore, «miliardi di persone nel mondo decidono di accedere a (o, per lo meno, di non retrocedere da) una religione determinata, dai confini ben misurabili che segnino con chiarezza la differenza fra chi è ‘dentro’ (per ortodossia e per coerenza ai dettami morali) e chi è ‘fuori’ (per eresia e per insubordinazione alle norme ecclesiali)». Si tratta di persone che hanno dato un apporto spesso determinante al pensiero filosofico e alle acquisizioni cui è giunta la società contemporanea. Del resto, «come ci sono molti modi di vivere la spiritualità e la religiosità, ce ne sono altrettanti di vivere la religione. E chi vive uno di questi ambiti con consapevolezza critica e senso del limite riconosce, a fiuto, il proprio omologo in un altro». Anche chi è religioso può accettare di «“re-immaginare” il divino cento e cento volte, sino al punto da intuire che Esso/Egli/Ella e? esattamente al di la? di ogni immagine possibile; anzi, di ogni concetto. Ma se la dimensione divina e? inattingibile alla nostra mente non significa che la teologia sia un’attivita? superflua. Essa, tra molti compiti, ne ha due: liberarci dagli idoli che produciamo nella storia identificandoli con l’Assoluto; predisporci, cosi?, a quella felice poverta? che favorisce l’esperienza concreta dell’amore. La teologia che ci spoglia delle false certezze e? la medesima che ci espone alla consapevolezza che assaporare il divino e? possibile solo volendo bene e lasciandosi voler bene».
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