Martini: una memoria non apologetica
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 25/06/2022
Sono passati dieci anni dalla sua morte e venti dalla conclusione del suo episcopato. La memoria del card. Martini si trova al centro di incontri, cerimonie, pubblicazioni. È l’intensificazione di quanto c’è da tempo. La Compagnia di Gesù ha promosso una Fondazione molto attiva che sta pubblicando la sua Opera Omnia: il preposito generale Arturo Sosa sarà a Milano il 18 giugno per parlarne. Martini viene indicato come un precursore di papa Francesco che l’ha recentemente ricordato in un suo intervento. I suoi testi si diffondono facilmente. Martini, in sostanza, era il vescovo “conciliare” per eccellenza.
Elenco i punti che mi sembrano più importanti: l’esplicita “campagna” perché la Parola tornasse al centro di tutto (vita liturgica, vita di fede, confronto con la società ecc..), dialogo ecumenico e con le altre religioni, la Cattedra dei non credenti, attivazione perché ci fossero in diocesi quelli che ora chiamiamo percorsi sinodali (convegno diocesano “Farsi prossimo” del 1986, sinodo diocesano del 1994-5 e altro), incontro rispettoso e curioso nei confronti dell’uomo in ricerca, empatia verso i portavoce della cultura e della scienza. L’ambiente in cui si trovò paracadutato da uomo della ricerca teologica senza esperienza di vita pastorale non fu dei più semplici; fece fatica a ingranare, non poteva dominare la curia con le nomine come facevano i suoi predecessori, era lontano per cultura e carattere dall’essere e dal sentirsi protagonista della città. E poi si trovava ad essere a capo di una diocesi di cinque milioni di anime (in un Paese con diocesi mediamente di cento-duecentomila). Non si sono mai capite le vere motivazioni della sua nomina ad arcivescovo. Comunque Martini riuscì a emergere anche perché era mediocre il contesto ecclesiastico e vaticano in cui si trovava. Divenne il punto di riferimento di chi ricercava parole di verità. Era assente dalla sua predicazione la retorica ecclesiastica. Si diceva, tra chi faceva parte dell’area irrequieta e “conciliare” nella Chiesa, “Sì, ma c’è anche Martini”.
Martini prese coscienza dell’importanza delle parrocchie, era esplicitamente critico nei confronti di Comunione e Liberazione, alcuni dei cui membri esprimevano privatamente nei suoi confronti giudizi sprezzanti, era critico nei confronti dell’Humanae Vitae, auspicava un passaggio immediato al diaconato femminile (facendo intendere che poi bisognasse andare oltre). Molti si sono chiesti quale è stato il suo comportamento al Conclave del 2005. Da quello che si riesce a sapere, egli accondiscese al voto dell’ala progressista dei cardinali verso Ratzinger, temendo candidature di ultima qualità (Ruini). La sua opinione sul pontificato di Ratzinger deve essere precipitata poi, perché, prima di morire, il gesuita Silvano Fausti (considerato il suo confessore), ascoltabile su Youtube, disse che Martini, quando incontrò il papa nella curia di Milano nel giugno del 2012, gli suggerì di dimettersi, evidentemente come conseguenza degli scandali vaticani e della incapacità di gestione del papa (basti pensare a Bertone, segretario di Stato!). Martini diceva che, per questioni di principio, i papi non avrebbero dovuto essere mai santificati. Fu contrario alla santificazione di papa Wojtyla sostenendo che egli avrebbe dovuto dimettersi a causa della sua malattia. Quindi aveva una posizione “laica” sulle questioni del papato.
Martini negli ultimi tempi ebbe a dire in modo esplicito che di lui avevano fatto un mito (facendo riferimento al circuito che si definiva “martiniano” e a tanti altri) e si interrogava “ma che uso faranno di questo mio mito”? Domanda onesta, di buon senso, di persona che era ben a conoscenza del circuito ecclesiale e del suo modo di operare. Ora tocca a noi sopravvissuti “martiniani” non fare errori, non farci trascinare dall’enfasi nei confronti del personaggio fino a metterlo in pista per una carriera ecclesiastica postmortem, verso la beatificazione e, magari, la santificazione, negando così proprio una delle sue virtù, il senso critico e un approccio problematico anche alle questioni più importanti della fede e della pastorale. Ci vuole invece una conoscenza analitica e ragionata della sua storia che, fino a ora, manca e che ragioni su fatti dei suoi ventidue anni a Milano, passaggio per passaggio.
Partirei dalla sua collocazione di vertice (da vescovo e poi, ancora di più, da cardinale). Dalle testimonianze di chi gli era vicino e in confidenza, appare la contraddizione tra quello che pensava e quanto diceva, appaiono i vincoli di una struttura pesante, quella della curia di Milano, che egli non poteva contrastare apertamente a prezzo di lacerazioni interne. E poi i sotterranei conflitti col Vaticano. La sua collocazione lo costringeva al riserbo e anche a veri propri errori di valutazione. Mi permetto di dire qualcosa che so.
Martini si legò di forte amicizia con gli esponenti della comunità ebraica e i suoi leader e contribuì molto al dialogo ebraico-cristiano. Mai disse però una parola di supporto ai palestinesi e di giudizio sulla situazione; eppure visse a Gerusalemme mentre gli costruivano il muro davanti a casa. Sfuggì sempre a un intervento sulla situazione in Palestina nonostante le sollecitazioni. Mi pare una mancanza grave. Non ricevette mons. Gaillot quando venne a Milano (anche se non si capì se il no venne da lui o da qualcuno della curia). Al vescovo francese mons. Le Bourgeois che lo informò che era stato invitato a Milano sulla questione dei divorziati risposati scrisse che la cosa era inopportuna. Con “Noi Siamo Chiesa” tenne una posizione di completa estraneità nonostante tante sollecitazioni. Non ci doveva essere contatto. Gli feci consegnare un libro a titolo strettamente personale. Mi rispose ringraziando ma con “Noi Siamo Chiesa” non ci doveva proprio essere alcun rapporto.
Tanto altro bisognerebbe e capire e sapere. Bisognerebbe fare una ricerca con criteri scientifici. Durante l’episcopato di Martini ci risulta che, sulla questione degli abusi sessuali, la prassi sia stata quella diffusa ovunque: protezione del prete, disinteresse per la vittima.
In conclusione due cose bisognerebbe fare, abbandonare l’enfasi inutile su Martini e invece preoccuparsi di continuare i “processi” (come dice papa Francesco) che stanno nel messaggio di Martini: la Parola, l’ascolto dell’uomo in ricerca, la lontananza da tutte le rigidità ecclesiastiche che rischiano di soffocare la volontà di credere. A partire dalla diocesi di Milano, dove questa strada è attualmente troppo faticosa e lenta.
Vittorio Bellavite è già coordinatore nazionale di Noi siamo Chiesa
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