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Limiti e vincoli del governo Draghi

Limiti e vincoli del governo Draghi

Tratto da: Adista Notizie n° 27 del 23/07/2022

So bene che la terza via non sempre e di necessità rappresenta la via giusta; che, a dispetto di un vecchio mantra, non sempre la virtù sta nel mezzo; che talvolta chi non si schiera è un cerchiobottista incline all’opportunismo doroteo. E tuttavia mi riesce difficile optare per i cantori delle virtù di Draghi e del suo governo ovvero per i suoi accaniti detrattori. Ai miei occhi, un giudizio equanime deve piuttosto approfondire le ragioni oggettive delle sue criticità. Ne accenno alcune.

La prima è la congiuntura singolarmente critica, interna e internazionale. Sottovalutarne la portata sarebbe ingeneroso: la pandemia non ancora debellata, la guerra e le sue pesanti ricadute economico-sociali. Del resto, si vedano Gran Bretagna, Francia, Germania. La più parte dei governi europei non se la passa bene. Chi, precipitosamente, dava per morti sovranismi e populismi, evidentemente si sbagliava. Secondo: un limite del governo Draghi è inscritto nel suo atto di nascita e soprattutto nella sua enfatica rappresentazione. Un esecutivo con una base politico-parlamentare tanto estesa quanto eterogenea. Tra le sue missioni native, l’implementazione del Pnrr e – questa la retorica che l’ha accompagnata – un cospicuo numero di “riforme”. Ma riforme vere, non declamate, intaccano valori e interessi di tutti e singoli i gruppi sociali. Li riarticolano. Esse (riforme), per definizione, presupporrebbero l’esatto contrario di un governo di larghe intese. Semmai un governo eminentemente politico, che operi scelte che inesorabilmente selezionano gli interessi e i valori da rappresentare. Si pensi al nodo più esemplare: la riforma del fisco, non a caso evanescente e differita con una legge delega priva di un riconoscibile indirizzo. Una terza ragione: non è necessario indulgere al complottismo e alla fantapolitica per osservare come Draghi e il governo da lui presieduto godano di un robusto sostegno da parte dell’establishment interno e internazionale nonché dei media che ad esso danno voce. E tuttavia altrettanto innegabile è lo iato che separa tale consenso “dall’alto” da una parte cospicua del Paese in profonda sofferenza economica, sociale e politica. Come ha documentato di recente Pagnoncelli, con una indagine una tantum non limitata agli orientamenti di voto (e non voto) ma anche all’articolazione sociale di esso.

Infine, vi è un più specifico deficit di rappresentanza da parte dei concreti partiti che sostengono il governo. Di nuovo esemplifico: va scontato il bacino estesissimo dell’astensionismo, la crescita della sola significativa forza di opposizione ovvero Fli, un PD sempre più configurato come il partito del governo (che gli assicura una rendita di posizione, ma, contestualmente, gli inibisce la rappresentanza di settori di opinione che invocano un cambiamento), il M5S in preda a convulsioni e ferito a morte da una scissione palesemente incoraggiata da fuori di esso. Una scissione strumentalmente motivata per difendere il governo e che, in realtà, a rigor di logica, mirava a spingere fuori dalla maggioranza il M5S per bollarlo come irresponsabile. Convulsioni che sembrano pregiudicare il solo approdo plausibile e positivo di un movimento dall’identità troppo a lungo irrisolta ovvero quello di una sinistra di nuovo conio di stampo labourista e ambientalista. Una sensibilità politico-culturale che l’attuale PD non sembra in grado e forse neppure vuole interpretare. Conte, con la sua agenda scandita in nove punti, dà l’impressione di provarci. Ma l’assedio interno ed esterno rendono l’impresa difficile e forse impossibile. Comunque clamorosamente tardiva. L’impressione è che Conte – come non bastasse bersaglio di una impressionante campagna di stampa corrosiva – sia dilacerato tra i “governisti” che, pur senza averlo seguito, occhieggiano a Di Maio e chi si illude di poter tornare all’antico registro protestatario modulo Di Battista. A dispetto della sua indole moderata e istituzionale. Due derive entrambe sterili e regressive. La prima inutile (che bisogno c’è di Di Maio nella folla rissosa dei centristi, quelli del “Draghi for ever”, che usano politicamente il premier senza la sua autorizzazione?), la seconda impossibile. A dispetto delle apparenze, tale deficit di politica si riverbera anche su Draghi e sul governo. Perché anche i super tecnici quando governano non possono prescindere dalla politica e dai partiti. In positivo e in negativo, come risorse e come limiti. Ed è persino ovvio – è la quinta ragione – che, con l’approssimarsi delle elezioni, ciascun partito si proponga di marcare la propria peculiarità/differenza. Specie se incalzato da competitor insidiosi. Del M5S si è detto. Non è un mistero che ciò valga anche e soprattutto per la Lega in crisi di consensi, cannibalizzata dalla Meloni e afflitta da malcelate divisioni interne. Da ultimo quella animata dai nostalgici della Lega bossiana.

Franco Monaco già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Martini, presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, parlamentare del Partito Democratico, già membro della Commissione esteri della Camera e della delegazione parlamentare Osce

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