Caro Paolo...
Caro Paolo,
così iniziavano le nostre lettere quando ci scrivevamo e tu abitavi a Roma, su questa terra; mi è caro continuare con questa formula di esordio. Sento il bisogno di scrivere la mia gratitudine a te, e unirla a tutte e tutti quelli che in questi giorni la esprimono; sento l’urgenza di non mancare a quest’appello. Non me lo perdonerei.
Con il tuo esempio e il tuo insegnamento- uno dei più sottili e profondi in questo nostro tempo - hai reso palpabile una frase evangelica che ho sempre portato con me: “Va’, la tua fede ti ha salvata/o”.
Sei stato - anche per me- una testimonianza evangelica. Hai dato significazione incarnata alla Parola, che non sempre trova risonanza nelle nostre coscienze.
Alludo al tuo disporti per una inclinazione che va verso l’altro/a, alla tua “semplice” disponibilità, al tuo “esserci in pienezza” e in com-unione, alla tua attitudine alla condivisione, al tuo “dare fiducia”, al tuo tendere all’accordo, mai però per conformismo o spirito di compiacenza, perché se dissentivi dalla tua interlocutrice o interlocutore non lo nascondevi. Parresia per amore della verità. Con la tua voce, così calda e rotonda, che si espandeva in tutto l’arco delle intonazioni e delle modulazioni vocali.
In particolare vorrei che la mia gratitudine si incentrasse su due punti (spesso, nei tuoi interventi, usavi sviluppare il tuo discorso in una sequenza di punti, che esponevi all’inizio, per poi riprenderli man mano; era un metodo che gradivo, che invitava al percorso logico delle tue argomentazioni, un approccio che teneva in conto chi ti stava di fronte ( su questa espressione poi ritornerò), aiutandolo a seguirti con agio. Il tuo discorso, ricordo, era scritto a mano su foglietti, in una scrittura minuta e fitta fitta).
Vengo ai miei due punti:
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La dedizione all’altro/a: non è una prerogativa solo femminile
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Un’esegesi delle Scritture fedele alle due soggettività umane sessuate
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Il tuo accogliere la presenza o la parola dell’altro aveva molto dello spirito del materno, della dedizione, della sollecitudine, della presa in carico della domanda che il fratello o la sorella ti rivolgeva. Era una attitudine che sbalordiva tutte e tutti quelli che ti conoscevano e ti interpellavano. Tutte virtù, o qualità o predisposizioni che abitualmente, nella nostra cultura patriarcale, si attribuiscono alle donne; e a quelle che esulano da tali inclinazioni si fa spesso notare il loro difetto. Nella ecclesiologia cattolica si parla infatti di genio femminile, intendendo con ciò la dedizione sconfinata della donna, sempre identificata con la madre, e di cui si celebrano gli exempla .
La teologa Lilia Sebastiani, in un suo commento, osservò che, se la dedizione e la accoglienza senza riserve era un carattere inequivocabile del Maestro di Nazaret (vedi la parabola del buon samaritano), non si capiva perché tale stile, tale attitudine dovessero essere predicate e raccomandate in particolare al genio femminile e non piuttosto a tutti indifferentemente: uomini e donne, senza distinzione, come senza distinzione è il battesimo.
Questa è una delle ragioni – tra le tante- per cui ti sono grata. Avere mostrato e testimoniato che si può essere uomini ed essere empatici, senza per questo perdere alcunché della propria identità maschile, né perdere autorità.
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La seconda cosa per cui ti sono grata è tuo contributo alla costruzione del libro da me curato, Non sono la costola di nessuno, Letture sul peccato di Eva.
Non sto solo evocando la tua disponibilità (nonché entusiasmo) per il mio progetto, che poi hai tramutato in un gesto concreto, accurato, approfondito. Sto soprattutto evidenziando la tua attenzione alla questione che è stata sollevata in primis dalla teologia femminista.
Un rinnovato interesse alle figure femminili presenti nella Scrittura è lodevole, ma può risultare un misconoscimento del focus di questa teologia. È fuorviante credere di dar spazio e riconoscimento alla soggettività femminile in campo teologico inserendo qua e là – nelle trattazioni, nelle liturgie etc. – l’accenno che “anche la tal donna ha detto questo… anche la tal donna ha fatto quest’altro”, o aneddoti di tal risma. Sono contentini furfanteschi con cui ci si illude di riparare il mal tolto e pareggiare i conti.
Tu ha capito che si tratta piuttosto di inaugurare una nuova economia simbolica che sappia abbracciare la storia, la cultura, la civiltà, i saperi - tra cui i saperi teologici- con una prospettiva avveduta e critica nei confronti dell’androcentrismo, degli stereotipi e dei pregiudizi sessuali, e di rivolgere uno sguardo attento ai fondamenti biblici – e ontologici- delle due soggettività sessuate, argomento cui il libro voleva dare un contributo.
Senza pagare lo scotto di questa revisione, che è forse una rifondazione, i guadagni saranno sempre alquanto deludenti.
In quell’occasione tu hai dato prova di tale attenzione e della consapevolezza che occorreva scardinare pregiudizi millenari, tra cui quello della primazia maschile nel disegno della creazione e quello della attribuzione divina alla donna di un ruolo ancillare e domestico.
Il tuo contributo porta il titolo: Lutero, Calvino, Barth e noi alle prese con Genesi 1, 2 e 3.
Non posso sfuggire alla tentazione di citare ampi brani, che ancora oggi mi sorprendono per la acutezza e raffinata singolarità dell’analisi, così schiva dal ripercorrere piste interpretative canoniche e così libera da pastoie di consunte esegesi. E infatti le prime pagine del saggio (il prologo) sono tutte volte a inquadrare cinque grandi equivoci che la tradizione ha trasmesso nei secoli. Ma qui non mi posso soffermare su ciò. Poi così continuavi:
«Entrambi i racconti della creazione dell’uomo e della donna, pur nella loro diversità, contengono e trasmettono uno stesso triplice messaggio. Il primo è che non esiste umanità se non come umanità sessuata in senso maschile e femminile».…«Il secondo messaggio è che proprio perché la creatura umana è strutturalmente duale, nessuna delle due parti che la compongono può rappresentare l’altra né può sostituirsi ad essa»…. «Il terzo messaggio, implicito più che esplicito, comune ai due racconti è che benché la donna sia chiamata (in ebraico) Ishàh (= donna) perché tratta dall’Ish (= uomo) (Gn 2,23), e benché uomo e donna siano ciascuno «carne della carne» dell’altro, pure c’è tra l’uomo e la donna una misura di alterità tale che né l’uomo riesce a capire realmente che cosa significhi essere donna, né la donna riesce a capire realmente che cosa significhi essere uomo»…..«Entrambi i racconti concepiscono e presentano i due partner della coppia umana come uno il vis-à-vis dell’altro. Nel primo racconto questa concezione è insita nell’immagine di Dio secondo la quale l’uomo è stato creato». E proseguivi: l’essere umano «esiste in una dualità di soggetti che stanno uno di fronte all’altro per conoscersi, aiutarsi e insieme realizzare la pienezza dell’esperienza umana»…. «Due errori devono quindi, in questo campo, essere evitati: il primo è attribuire a un «fatto di natura» il dominio dell’uomo sulla donna; il secondo è attribuire alla punizione divina il confinamento della donna nell’ambito privato e domestico. È però successo nella storia cristiana, ma già prima, in alcune pagine della stessa Sacra Scrittura, che si sia attribuito alla natura della donna ciò che Genesi 3,16 attribuisce alla punizione divina, e si sia costruito una teologia della donna, se così si può dire, e della sua relazione con l’uomo che ignora totalmente l’evangelo contenuto nei due racconti della creazione dell’uomo e della donna e, ignorandolo, lo contraddice».
Verso la conclusione scrivevi:
«Nell’insieme si può dire che Paolo non è stato un paladino della emancipazione femminile, così come non è stato l’apostolo della liberazione degli schiavi. Ma il suo Evangelo della libertà da un lato e, dall’altro, dell’unità in Cristo dell’uomo e della donna che credono in lui conteneva e contiene la forza di scardinare l’ordine gerarchico della società patriarcale e trasformare il rapporto di dipendenza e subordinazione della donna all’uomo che le è organico in un nuovo assetto di relazioni caratterizzato da libertà, partnership e reciprocità» (Non sono la costola di nessuno, Letture sul peccato di Eva, a cura di Paola Cavallari, 2020, Gabrielli editore, p. 125 e passim).
La lunga citazione era necessaria per cogliere l’essenza del tuo intervento, e la parola “reciprocità” con cui chiudo il rimando è forse la più ricca di significazione della sostanza spirituale in cui può germinare il dono della relazione tra i sessi e l’orizzonte in cui se ne intravede un suo dischiudersi nella Scrittura.
Ma ancor più ti sono riconoscente per un aspetto che non è legato direttamente a Genesi 2 e 3, che rappresentava il focus dell’indagine del libro.
Per la mia introduzione- da titolo Peccato originale o peccato patriarcale d’origine? Riletture a partire dalle radici della fede ebraico-cristiana , volevo inserire alcune frasi folgoranti che ti avevo sentito pronunciare durante una sessione estiva del SAE. Erano passate in sordina, come spesso avviene per affermazioni “scomode”. Per il loro sconvolgente contenuto, le volevo dissotterrare dalla irrilevanza pubblica che le aveva accompagnate, dalla cappa di silenzio che era seguita. Ebbi da te la conferma del mio ricordo, e mi aiutasti a definire i dettagli: ebbi il consenso a mettere nero su bianco e pubblicare il tutto. Ero molto soddisfatta.
Ora dopo anni, devo ammettere che il risultato, caro Paolo, fu ancora una volta deludente: un muro di gomma. E allora riscrivo qui quel tuo pezzo, orgogliosa di questa avventura vissuta con te. Cito dal libro:
«Riferirò di un fatto. Paolo Ricca, in uno degli appuntamenti durante la sessione estiva del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) 2017, con una lucidità impressionante ricordò un episodio assai significativo. In un colloquio del gruppo Fede e Costituzione di molti anni prima, a cui lui era presente, un teologo ortodosso aveva sostenuto la tesi che un sacerdote, in quanto icona di Cristo, poteva essere solo uomo nel senso di maschio, perché Cristo era maschio. A ciò replicò Johannis Zizioulas, dicendo che quel discorso non aveva senso, era anzi una solenne sciocchezza, perché il sacerdote è, sì, icona di Cristo, ma non del Gesù storico, che era maschio, bensì del Cristo Risorto, che è aldilà di ogni determinazione sessuale.
Dello stesso convincimento è Paolo Ricca, che, in uno scambio epistolare sull’argomento in seguito avvenuto con me, ha aggiunto: «Il Risorto non è riconoscibile perché radicalmente altro, quindi non si può dire che abbia i caratteri del maschio». Semplicemente superbo» (Non sono la costola di nessuno, Letture sul peccato di Eva, ibidem).
* Foto di Geofix da Wikimedia Commons. Immagine originale e licenza
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