
Un'analisi sull'Est Congo: per favore non parliamo di conflitto etnico!
Di Africa si parla poco. E della Repubblica Democratica del Congo, attanagliata da decenni di conflitto, disastri ambientali, estrattivismo predatorio, povertà endemica, epidemie, ecc., forse ancor meno. Ad accendere un riflettore sullo stato di guerra permanente nelle province orientali, spesso banalmente classificato come “scontro etnico”, un articolo del portale Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, firmato Sara Cecchetti, esperta del tema, laureata all’Università di Pisa è studentessa di Filosofia nello stesso ateneo e anche alla Scuola Normale Superiore.
Il gancio con l’attualità è inevitabile: l’avanzata del Movimento 23 Marzo (M23) nell’Est, con la presa di Masisi (Nord kivu) e la risposta delle Forze armate della RDCongo, offre l’imbeccata perfetta per raccontare il coinvolgimento – ormai conclamato e confermato anche dagli ultimi rapporti delle Nazioni Unite – del Ruanda nella destabilizzazione funzionale della regione attraverso il M23. «Sebbene l’M23 dichiari come principale obiettivo la protezione delle minoranze tusti in Congo», spiega l’analista, «a muovere gli interessi dei ribelli e di Kigali sono le risorse minerarie» di cui è estremamente ricco il sottosuolo congolese, tanto da configurare un vero e proprio «scandalo geologico».
I giacimenti di minerali strategici come rame e cobalto hanno da tempo destato l’attenzione – e l’ingerenza – delle potenze straniere, non solo confinanti, da cui il Paese africano non riesce ad affrancarsi, nonostante le dichiarazioni di principio soprattutto dell’attuale presidente Félix Tshisekedi, il quale aveva promesso un cambio di passo nella gestione delle miniere rispetto al predecessore Joseph Kabila in merito ai contratti elargiti a potenze come la Cina.
L’origine dei mali atavici dell’Est Congo è dunque da rintracciare in una sorta di "concorso di colpa" internazionale che vede coinvolti molti attori e fattori: dal desiderio di accaparramento dei territori minerari e del controllo delle risorse all’incapacità dei governi del Paese a mantenere la sicurezza, passando per la conclamata corruzione radicata in profondità nelle istituzioni locali e i silenzi complici della comunità internazionale. «Il popolo congolese – spiega l’autrice – si trova quindi a metà tra l’essere schiacciato da ingerenze straniere e l’essere totalmente ignorato da una comunità internazionale che sembra non accorgersi della guerra in corso. È qui che si può trovare la risposta al perché si usi la categoria di conflitto etnico: tacendo le reali ragioni delle guerre, finalizzate alla gestione delle risorse, si fanno apparire gli scontri come connaturati alla popolazione e alle dinamiche che la caratterizzano e dunque difficilmente risolvibili». Una connotazione della crisi congolese che, si legge tra le righe, fa parecchio comodo a un mercato, quello delle nuove tecnologie, sempre più vorace di risorse. Il tutto sempre e solo sulla pelle dei popoli congolesi.
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