LE RICHIESTE DEI VESCOVI AFRICANI. INTERVISTA A MONS. SARPONG
Tratto da: Adista Notizie n° 63 del 22/09/2007
26633. ROMA‑ADISTA. Parlare di "inculturazione" del Vangelo in Africa vuol dire parlare del destino stesso della Chiesa cattolica nel Continente, della sua possibilità o meno di esistere, della sua capacità di rendere rilevante il messaggio cristiano nella vita dei popoli africani. Ma oggi vuol dire anche parlare di un conflitto latente tra i vescovi locali e il Vaticano, che sulla carta accetta il principio dell'inculturazione, ma nella pratica osteggia, frena e a volte blocca esplicitamente gli esperimenti e i tentativi di creare una Chiesa autenticamente africana. Per capire quali sono i problemi in ballo e quali le speranze dei vescovi africani, Adista ha incontrato, durante uno dei rari momenti di pausa del Sinodo africano in svolgimento a Roma dal 10 aprile all’8 maggio, mons. Peter Kwasi Sarpong, vescovo di Kumasi (Ghana), che è considerato uno dei pastori più impegnati ed esperti nel campo dell'inculturazione. Ecco l'inter-vista che ci ha rilasciato. D: Il tema dell'inculturazione è forse la questione più complessa che i vescovi africani stanno discutendo al Sinodo. Alcuni padri sinodali, in particolare, hanno sollevato il problema del matrimonio tradizionale africano, che è difficile mettere d'accordo con il matrimonio così come lo intende la Chiesa cattolica. Lei cosa ne pensa? R: Il concetto di inculturazione può essere spiegato con una domanda: in che modo il messaggio e la vita cristiana possono essere incarnati in una particolare cultura, usando gli elementi di quella cultura, in modo tale da dar vita ad una nuova creazione di Dio? Essa coinvolge dunque tutti gli aspetti del messaggio cristiano: il modo in cui la fede viene trasmessa, la morale, la vita della Chiesa, la liturgia. La Chiesa in Africa sta cercando di far uso della saggezza antica e tradizionale dei nostri popoli per esprimere il messaggio cristiano. Per quanto riguarda la questione del matrimonio, occorre subito dire una cosa: non si tratta di una questione di dottrina, ma di pratica. Nell'Antico Testamento, alcuni dei grandi uomini benedetti da Dio, come Abramo, Salomone o Davide, erano poligami. Le società africane sono società nelle quali moltissimi uomini praticano la poligamia. La Chiesa oggi, ovviamente, non è favorevole a questa pratica. Ci troviamo dunque di fronte ad un problema pastorale: cosa fare se un uomo, che non e ancora battezzato e che ha due o tre mogli, vuole convertirsi al cattolicesimo? Mandare via le mogli "di troppo"? E poi chi baderebbe ai loro bambini? Come si vede, non è un problema semplice. Alcuni di noi vescovi presenti al Sinodo stanno cercando di spiegare la situazione, in modo tale che si possa formulare una risposta pastorale. D: E per quanto riguarda il "matrimonio a tappe"? Anche questo, secondo le leggi della Chiesa, non è possibile. Ciononostante, si tratta di una prassi molto comune in Africa, su cui molti teologi stanno riflettendo e su cui hanno chiesto una risposta realistica del Sinodo. R: Anche questo è un problema serio. In Africa, un matrimonio che non è fertile è destinato a sfasciarsi. Pochissimi matrimoni in cui uno dei due coniugi è sterile durano a lungo. In molti Paesi del nostro Continente, perciò, c'è la tradizione di un matrimonio a tappe: un matrimonio diventa veramente tale quando nasce il primo figlio. Dunque, in teoria, l'uomo convive con la donna quando il matrimonio non è ancora "contratto". Anche in questo caso, la legge della Chiesa è decisamente contraria. Ma cosa è meglio: celebrare comunque il matrimonio, sapendo che magari è destinato a fallire, oppure seguire la tradizione del matrimonio a tappe, sapendo che poi sarà un'unione stabile? Alcuni vescovi sono per questa seconda ipotesi. Tra l'altro, celebrare il matrimonio ad ogni costo, sapendo che il consenso di uno dei due coniugi è condizionato alla verifica della fertilità dell'unione, rende comunque invalido e annullabile il matrimonio stesso. (...) D: Al Sinodo si è parlato molto anche della necessità di rivedere la formazione dei preti, considerata troppo clericale e, in generale, di ripensare la concezione della Chiesa sui ministeri ordinati. Qual è il suo parere? (...) R: Davvero troppi preti in Africa peccano di clericalismo e guardano dall'alto in basso la gente, i poveri, le donne, i giovani. Molti fanno pesare la propria formazione, magari hanno studiato a Roma, hanno viaggiato all'estero... Questi non sono veramente a contatto con le persone. (...) D: Veniamo al ruolo delle donne: le sembra sottovalutato all'interno della Chiesa africana? R: Nella mia diocesi, come in tante altre, le donne giocano un ruolo molto importante: come catechiste, come presidenti di consigli pastorali, ecc... Se lei poi si riferisce al fatto che le donne non possono essere sacerdoti, beh, è un altro problema, di tipo dottrinario. Una cosa le posso dire: se la Chiesa cattolica decidesse di ammettere le donne al sacerdozio, la cosa sarebbe ben accolta dalla mia gente. Molte donne, infatti, nelle religioni tradizionali, sono sacerdotesse. (da Adista 33/94)
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