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L'ALTRA META' DEL DOLORE

- DALLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE A QUELLA FEMMINISTA: LA TEOLOGA BRASILIANA IVONNE GEBARA RIPERCORRE LA SUA STORIA.

Tratto da: Adista Contesti n° 80 del 17/11/2007

Questa intervista, raccolta da Hugo José Suárez, è stata pubblicata dal sito internet “redes cristianas”. (19/10/2007). Titolo originale: “diálogo con Ivonne gebara: mujer, teóloga y femminista”

Una delle donne che ha conosciuto nella sua storia personale la censura della Chiesa è la religiosa brasiliana Ivonne Gebara. Nel 1994, avendo scritto relativamente alla donna, all’aborto, alla teologia ed altro, è stata censurata dal Vaticano. Nel tentativo di indurla a rivedere le sue riflessioni, è stata ‘invitata’ a trasferirsi in Europa per realizzare studi teologici in un’istituzione cattolica. Oggi, ormai anni dopo, l’incontriamo all’Università Cattolica di Lovanio alla vigilia della discussione della tesi per il dottorato sul tema “Il male visto a partire dalla donna”, una critica alla teologia occidentale che ha organizzato il suo pensiero su una gerarchia di valori fondata sul patriarcato. Dopo una gradevole colazione sulla “Gran Rue” di Lovanio e dopo aver riscoperto una donna fantastica della quale abbiamo tanto sentito parlare, iniziamo il dialogo.

 

Com’è successo che sei diventata una teologa femminista?

Ho studiato a Lovanio e sono giunta a Recife, in Brasile, nel 1973. Era in piena effervescenza la Teologia della Liberazione, sicché sono tornata a studiare teologia attraverso di essa. Leggevo tutto quello che pubblicavano Gustava Gutiérrez, Leonardo Boff e altri. Ho iniziato con molto entusiasmo. Negli anni ’73-’75 non pensavo di essere femminista. Avevo ascoltato qualcosa di Betty Fridam negli Stati Uniti e allora non vi trovavo niente che mi piacesse. Ero interessata all’opzione per i poveri.

Sul finire degli anni ’70, ho cominciato a percepire che molte questioni relative alle donne non entravano nella riflessione della Teologia della Liberazione. Per esempio, il tema del corpo, della sessualità, problemi quali l’aborto, la colpevolizzazione, il lavoro all’interno delle mura domestiche, ecc., e ho cominciato ad essere più sensibile alla tematica. Mi sentivo male, ma non avevo proprio la forza e il coraggio per parlare a voce alta di tutto questo. Fino a quando, nel 1980, lessi su Concilium due articoli: uno di Dorothee Sölle, un testo bellissimo sulla cultura dell’obbedienza, dove si spiega come il nazismo sia frutto della cultura dell’obbedienza, e noi, come donne, per la nostra sottomissione e il “complesso di inferiorità”, abbiamo sostenuto questa cultura; l’altro articolo, che era di una statunitense, Rosemary Radford, parlava delle immagini di Dio. Ho cominciato a leggere le femministe del Brasile, che avevano un periodico intitolato “Mulhei-ro”. Ho cominciato pure a interessarmi alla lotta delle Madri di Piazza di Maggio. Io stessa avevo vissuto la repressione della dittatura, durante la quale una delle mie compagne era stata assassinata. Il femminismo mi ha dato alcune illuminazioni per capire in parte quello che è successo in quel tempo a molte donne.

Così il femminismo è stato per me un incontro, una coscienza, un incontro con donne del ceto popolare, un malessere, un apprendistato... E d’improvviso ho cominciato a parlare, e non so come mi sono ritrovata teologa femminista. Non posso dire che è stata una determinata donna a farmi cambiare, ma un movimento, una coscienza creata attraverso riviste, libri, articoli e la vita quotidiana in un quartiere, il vedere come vive la gente.

 

Come si colloca la tua riflessione rispetto alla Teologia della Liberazione?

Mi sento sulla stessa onda dell’opzione per i poveri, della maggioranza della popolazione, della questione delle contraddizioni di classe, in sintonia con tutta quest’analisi sociologica. Il taglio fondamentale dell’opzione dei poveri è sempre lo stesso; ma quello che introduco (e per questo dico che c’è differenza, non opposizione) è che, a partire dal femminismo, faccio una critica alla teologia patriarcale che non ha mai considerato l’intervento del genere (co-struzione sociale di genere). Com’è possibile che continuino a non denunciare le ingiustizie che sono state commesse sulle donne? Per esempio, quante donne sono state violentate in rivoluzioni e guerre, come in Ruanda, Haiti? Perché il corpo della donna diventa arma di guerra? Perché fanno la guerra sul corpo della donna? Perché non denunciano mai queste cose? Denunciano sempre le ingiustizie sociali, ma all’interno di queste ingiustizie ci sono corpi che subiscono più ingiustizia di altri.

 

La Teologia della Liberazione si muoveva dunque all’interno dello schema patriarcale di pensiero?

Sì, sebbene la Teologia della Liberazione abbia avuto il coraggio di introdurre il metodo sociologico e l’analisi economica nella teologia; ha spiegato chi sono “i poveri”, che escono da un’astrazione e una genericità di poveri di spirito per convertirsi in poveri nel senso concreto della parola. A questo, sì, la Teologia della Liberazione penso abbia dato un contributo valido, ma non ha criticato lo schema teologico tradizionale, la struttura del Dio creatore, del Figlio unico che ha sofferto per noi, ecc. Allora credo che sia necessario farlo adesso, perché viviamo in una società molto sacrificale e la teologia ha una responsabilità in questo, nel come uscire da questo sacrificio che la società ci impone.

 

Dopo i tuoi imprevisti ritorni in Europa e la censura che ti hanno imposto, ora per il dottorato stai per discutere una tesi su “Il male visto a partire dalla donna”. Come hai sviluppato questo tema?

Per affrontare questo lavoro non prendo in considerazione per prima cosa le teorie teologiche sul male, il peccato o la sofferenza, ma i testimoni, che sono innanzitutto le donne che raccontano il loro dolore. Non fanno un discorso teorico o sistematico sul dolore, ma questo si trova mescolato alle loro vite. Allora prendo il libro di Isabel Allende, “Paula”, nel quale il male è considerato come “il mio Paese all’epoca della dittatura militare”. Fonte di salvezza per Isabel è scrivere, scrivere per non morire, per continuare a resistere alla sofferenza. Poi prendo una scrittrice indiana chiamata Kamala Marcandaya, che patisce il male nella vita quotidiana, nella sua lotta per trovare da mangiare, per curare il figlio malato, ecc.; questo tipo di dolore è per me il dolore proprio delle donne. A seguire, considero le testimonianze che presenta un giornalista brasiliano, Gilberto Dimestain, che ha seguito il fenomeno della prostituzione delle bambine sulle strade; come giornalista, è stato nei posti dove loro stanno, ha parlato con loro e dopo ha scritto un libro, e io cerco di rispondere alla domanda: qual è il grande male che vivono? Inoltre parlo delle donne del “Movimento per un’abitazione dignitosa” del Brasile, di Domitila Chungara della Bolivia, di suor Juana Inés de la Cruz del Messico e di altri casi concreti. La domanda è che esperienza hanno di quello che noi chiamiamo “il male”. Questo è il mio punto di partenza. Segue un capitolo sulla mia esperienza personale e, dopo, qualcosa che non è molto comune nella teologia di Lovanio: lavorare con la mediazione di genere. E quando dico genere voglio dire che uomo e donna non sono realtà biologiche, ma realtà culturali, cioè che non si dà sesso biologico senza sesso culturale, perché ci viene detto cos’è un uomo e cos’è una donna, come si devono comportare, ecc. La mia preoccupazione è individuare il discorso plurale del male e scoprire come questa pluralità è vissuta da vari gruppi di donne, e, all’interno di quello che chiamo il discorso teologico, pongo la domanda: qual è il Dio delle donne?

 

Nella prospettiva di genere, non esiste una nozione di femminile e di maschile? Sarebbe tutto una costruzione sociale?

Penso di sì. Chiaro, c’è il fatto biologico, ma una bambina dal momento in cui nasce entra nella costruzione sociale, il papà e la mamma cominciano a trattarla come una figlia femmina. Cioè, il fatto bruto del biologico non significa niente, o significa qualcosa, ma è un biologico già condizionato da quella cultura. Non credo che ci sia un’essenza maschile o una femminile preesistente all’uomo storico e alla donna storica che siamo; non c’è niente di preesistente, piuttosto la differenza biologica che abbiamo è al tempo stesso una differenza culturale. Ti dicono che tu, come maschio, non puoi fare determinate cose, ti guardano in un certo modo, ecc. C’è una costruzione sociale della questione biologica.

 

Come si sviluppa l’interiorizzazione del modello gerarchico e maschile nella vita quotidiana delle donne e nell’istituzione ecclesiale?

È chiarissima la gerarchia presente nei discorsi. Quando ascolti le donne di São Paulo che lavorano nel “Movimento per un’abitazione dignitosa”, è interessante, perché loro sentono la gerarchia, dicono: “Qualcosa c’è quando uno nasce uomo o quando nasce donna”, e quando si nasce donna ti dicono: “Impara a lavare i piatti e a pulire la casa” e quando si nasce uomo gli dicono: “Vai fuori, vai a guadagnarti da vivere”; al bambino si ripete: “Tu comandi le donne”. Sebbene il discorso non venga esplicitato sempre in questi termini, la cultura ti educa in modo che sono rarissime le donne del ceto popolare che non hanno la mentalità della sottomissione.

E questa realtà è ancora più forte in istituzioni come la Chiesa. Se domandi quanti sono i sacramenti, ti dicono sono sette, ma in realtà sono sette per gli uomini e sei per le donne. La disuguaglianza è presente, le responsabilità di potere e di decisione che hanno le donne all’interno della Chiesa sono quasi nulle. Qual è l’elaborazione teologica fatta dalle donne e riconosciuta dalla Chiesa? Solo quella di alcune che hanno ripetuto le stesse cose degli uomini, ma se cerchi di parlare a partire dal tuo dolore, da come ti senti donna, con le tue sofferenze, non ti ascoltano. Il dolore della donna non è normativo, il dolore dell’uomo sì. La crocifissione dell’uomo Gesù ha molto più senso del dolore di sua madre Maria. Il sangue di Gesù è redentore, mai si è parlato del sangue delle donne, che inoltre è considerato impuro. Io voglio mettere a nudo queste contraddizioni della religione.

 

In questo momento la Chiesa cattolica vive una stanchezza dottrinale (se non un ritorno indietro) e sono poche le prospettive di cambiamento. Credi che esistano possibilità per il sacerdozio delle donne, oppure si può pensare, per esempio, che un giorno una donna potrà essere papa?

Ora non è possibile, ma credo che il problema non è che noi, come donne, si possa essere elette papa. Il problema è che questo modello gerarchico (gerarchia non solo sociale, ma anche sessuale) deve cambiare. Il punto non è che la Chiesa stabilisca che le donne siano ordinate, piuttosto che esista una concezione diversa dell’essere umano. La soluzione non è ordinare le donne, ma cominciare a cambiare relazioni, contenuti e azioni. Per esempio, in temi come l’aborto, la sessualità, i metodi anticoncezionali, in tutto quello che riguarda il corpo, la posizione della gerarchia cattolica è molto conservatrice. Nel caso della pianificazione familiare, per loro esiste il metodo naturale e quello artificiale, ma allora, in questa prospettiva, non dovrebbero accettare i pacemaker cardiaci, perché anche questi sono artificiali; se fai una separazione troppo rigida, il tema si complica. Esiste, dunque, un’idea di natura che bisogna cambiare; non è il sacerdozio delle donne che è essenziale, ma che si riconosca il loro diritto a pensare, agire, condurre, dire cose diverse da quelle degli uomini e che siano riconosciute per questo. Bisogna creare nuove relazioni nella società; questo vuol dire anche che bisogna ripensare i contenuti teologici, perché ci sono cose che non si possono più sostenere, che sono state valide in un mondo teocentrico e medievale, dove tutto era organizzato in base ad un’immagine di Dio come “padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”; ma oggi non si ha più questa idea di Dio. I nuovi paradigmi della scienza, i movimenti ecologici, femministi, ecc. hanno fatto cambiare la mentalità, per cui oggi non si possono più dire le cose che si dicevano prima.

 

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