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GENERALE, LA "GUERRA" È FINITA

- Intervista di Jim McDermott a Peter-Hans Kolvenbach

Tratto da: Adista Documenti n° 2 del 05/01/2008

Come è stato crescere nell’Olanda della Seconda Guerra mondiale?

Sembra che l’esperienza della guerra faccia parte della formazione di un generale. Prima della sua conversione, Ignazio di Loyola difese eroicamente la fortezza di Pamplona in Spagna contro l’esercito francese, nel 1521. Padre Arrupe, il mio predecessore, ha vissuto la crudele esperienza del primo attacco atomico a Hiroshima in Giappone. Alla mia formazione ha concorso non solo la seconda guerra mondiale, specialmente la violenta difesa del vicino confine tedesco dal settembre 1944 all’aprile 1945, ma anche i lunghi anni passati nella Beirut sconquassata dalla guerra quando era in gioco l’indipendenza del Libano. La guerra ti insegna a vivere in completa insicurezza e precarietà, nella consapevolezza che affrontare conflitti e tensioni è più comune di quanto lo sia un’esistenza bella e pacifica. E dopo una notte di violenza mortale, gli uccelli cantano ancora, annunciando che, nonostante il distruttivo odio umano, la morte non avrà mai l’ultima parola nella volontà del Creatore. Fare esperienza di questo credo pasquale è una buona preparazione per diventare un generale.

 Che cosa l’ha portata ad entrare nella Società di Gesù?

Dopo la guerra, da studenti della scuola superiore, raccoglievamo libri per rendere più umana la vita di molti prigionieri politici. In mezzo a tutto il materiale generosamente messoci a disposizione, scoprii un libricino che catturò la mia attenzione perché conteneva non solo parole ma serie di linee orizzontali. Lo aprii e lessi il principio fondativo di Ignazio. In tutto lo sconvolgimento e il disorientamento che la guerra aveva prodotto, la visione di Ignazio mi giunse come una luce. Quando raccontai al mio maestro dei novizi che avevo letto quel breve testo, mi informò che non l’avevo capito. Eppure, mi permise di entrare nella società.

Come arrivò a lavorare in Libano?

Mi mandarono e basta. Da novizio avevo espresso il desiderio di andare in Russia (nessuna risposta da Roma), poi nella Germania orientale comunista, dopo un incidente d’auto in cui la provincia aveva perduto tutti i suoi novizi (risposta positiva da Roma). Ma all’ultimo momento fui mandato in Medio Oriente, dove la guerra in corso in Algeria avrebbe potuto portare facilmente all’espulsione di tutti i gesuiti francesi. Quando, nell’ottobre 1958, arrivammo per nave nel porto di Beirut, in Libano, il combattimento era in corso. I diciotto diversi gruppi religiosi esistenti stavano cercando di avere la meglio l’uno sull’altro, stringendo alleanze politiche e militari con l’aiuto dei Paesi vicini. Eppure, il Libano voleva mantenere viva l’idea in base a cui popoli diversi possono vivere, lavorare ed esprimere la propria fede uno insieme all’altro. L’accoglienza dei libanesi fu indimenticabile. Anche quando la divisione nel Paese divenne più grave, non venne mai meno la speranza che il Libano potesse diventare un segno di armonia collettiva per tutto il Medio Oriente.

Quando Lei è diventato gesuita, non ha avuto alcuna percezione del fatto che avrebbe potuto essere eletto generale?

Non ebbi questa sensazione; ad ogni livello, io ero un outsider. La provincia mediorientale copriva un’area complicata, dall’Egitto alla Turchia, che includeva la Giordania, la Terra Santa, la Siria e il Libano. Quel contesto apostolico richiedeva, per il destino delle Chiese orientali, piena attenzione nei confronti della crescente influenza politica e religiosa dell’islam e nei confronti del problema del grande numero di rifugiati palestinesi. Per molti lì era difficile dimenticare e perdonare fatti di un passato violento, era impossibile progettare il futuro, considerando l’incertezza politica, ed era complicato risolvere i problemi quotidiani. Per tutte queste ragioni, ciò che accadeva nel mondo e nella Chiesa universale – questioni come secolarizzazione e liberazione, inculturazione e promozione della giustizia - rimaneva completamente al di fuori delle nostre prospettive. La mia nomina a rettore dell’Istituto Orientale di Roma non cambiò sostanzialmente la situazione. Per dare un nuovo inizio la congregazione cercava una persona nuova, una scelta ragionevole e comprensibile ma rischiosa. Un outsider era la cosa migliore.

Nel 1981, dopo che il generale p. Arrupe ebbe una trombosi, il papa intervenne nel governo della Compagnia e insediò un delegato con l’incarico di amministrarla. Qual era la situazione quando Lei fu eletto due anni dopo?

Grazie agli sforzi del delegato di Giovanni Paolo II, padre Paolo Dezza, e del suo assistente, padre Giuseppe Pittau, la comunicazione tra la Santa Sede e i gesuiti era già stata ristabilita. Lo stesso Santo Padre fu molto impressionato dall’obbedienza con cui era stato accettato l’intervento piuttosto severo nel governo della Compagnia. Per lungo tempo era stato riluttante a permettere la convocazione di una congregazione generale, specialmente in vista dell’ele-zione di un successore di padre Arrupe, per timore che, a causa dell’aspra divisione tra i gesuiti, una congregazione generale potesse risultare conflittuale ed esplosiva. Riconoscendo l’unità dei nostri cuori e delle nostre menti in fedeltà obbediente alle direttive del vicario di Cristo sulla terra, il papa concesse alla congregazione generale di riunirsi. E questa, in segno di unità, elesse il successore di padre Arrupe al primo turno.

Come generale, quali cambiamenti ha visto nella Compagnia?

Citando il Santo Padre, direi che la Compagnia di Gesù è diventata più spirituale, più ecclesiale e più apostolica. È più spirituale nella consapevolezza che bisogna vivere l’espe-rienza mistica di sant’Ignazio espressa negli Esercizi spirituali: nel viverla, possiamo oggi aiutare le persone ad incontrare l’Uno che sta all’inizio e alla fine di ogni vita umana, offrendoci la nostra personale vocazione e missione. È più ecclesiale per il fatto che una "indifferenza cordiale" nei riguardi del pastore della Chiesa si è trasformata in un’ar-monia apostolica sotto e con Pietro. È più apostolica per il fatto che, secondo quanto ha detto Paolo VI e ha ripetuto Giovanni Paolo II, laddove nella Chiesa si è registrato un conflitto tra i desideri più profondi della persona umana e il messaggio perenne del Vangelo, sia ai crocevia delle ideologie che sul fronte del conflitto sociale o nei campi più lontani e difficoltosi, lì ci sono sempre stati dei gesuiti.

Sei anni dopo la sua elezione a generale, sei gesuiti, la loro domestica e sua figlia sono stati uccisi in El Salvador: quali ricordi ha di loro?

Ho avuto l’opportunità di conoscere i gesuiti salvadoregni nel periodo in cui le profonde disparità tra ricchi e poveri avevano provocato una guerra tra l’esercito e i combattenti per la liberazione. L’Università dei gesuiti si schierò dalla parte dei poveri e a fianco dell’arcivescovo Romero, che venne assassinato, lavorando per la giustizia e per il regno. Quando visitai nuovamente El Salvador dopo l’assas-sinio dei gesuiti, era chiaro che essi, così come molti altri cristiani prima e dopo di loro, malgrado le implicazioni ideologiche e politiche, avevano portato il dono controculturale di Cristo ad un mondo imbarbarito dall’ingiustizia e dalla violenza, dall’odio e dalla persecuzione. Predicare Cristo povero e umile con fedeltà e coraggio, non solo nelle Chiese ma anche nelle Università, significa attendersi una forte resistenza, persino la morte. Uno dei gesuiti che ho incontrato prima che fosse ucciso sorrideva mentre gli dicevo che era considerato un seguace di Karl Marx. Ha citato le costituzioni gesuite, esprimendo il desiderio di assomigliare al Signore e di imitarlo allo stesso modo, che è l’unico che conduce alla vita.

Numerosi teologi gesuiti hanno avuto problemi con vescovi e con la Congregazione per la dottrina della Fede negli ultimi 25 anni. Come definirebbe questi conflitti? Qual è il ruolo dei un teologo gesuita?

L’indispensabile lavoro dei teologi è sempre andato avanti al servizio della Chiesa tra fraintendimenti e sospetti, tensioni e conflitti. Come il santo ed erudito Tommaso d’Aquino era solito dire, con le nostre migliori espressioni e visioni umane riusciamo a dire ciò che il mistero divino non è, ma non saremo mai in grado di dire pienamente che cos’è in tutta la sua profondità. Prima di Tommaso, i padri della Chiesa avevano parlato della Chiesa come del mistero della luna: illumina la nostra notte, ma tutta la sua luce viene da altrove (essendo la luna, come osservò più tardi il professor Joseph Ratzinger, fatta solo di rocce e sabbia).

Di fronte all’emergere di tante sfide, dobbiamo ringraziare i teologi per aver illuminato la strada che la Chiesa di Dio è chiamata a percorrere. Inoltre, poiché essi non possiedono luce propria, devono con noi e per noi prestare ascolto al pastore universale, che è chiamato a compiere il grande servizio di dirci, nella nostra ricerca della luce di Cristo: "Lui è qui, lui non è qui" (come disse Giovanni Paolo I nell’omelia del suo insediamento). Un teologo non può trascurare la sua responsabilità pastorale nel portare avanti il suo compito scientifico.

Come può il carisma ignaziano influenzare positivamente la lotta contro la polarizzazione religiosa e sociale?

Fintantoché resteremo all’interno della polarizzazione tra conservatori e progressisti, tra sinistra e destra, paralizzeremo o bloccheremo la libertà e la risposta apostolica. Lo Spirito ci spinge in avanti sulla strada verso di lui, verso colui che fa buone tutte le cose, che costruirà con noi una nuova terra e nuovi cieli, la città di Dio. Questa novità del Signore non si trova nell’ermeneutica della discontinuità, ma, come ha detto papa Benedetto XVI, nell’ermeneutica della continuità; la novità è venuta da colui che viene a rinnovare il mondo con la pienezza della sua verità e con il compimento del comandamento sempre nuovo dell’amore. Invece di guardarci sospettosamente l’un l’altro, guardiamo insieme a Cristo.

Ci può parlare delle attuali missioni della Compagnia?

Considerando che i gesuiti sono presenti in tutto il mondo, abbiamo la "missione naturale" di prenderci cura delle persone in movimento: rifugiati, richiedenti asilo, clandestini e migranti. Questa missione comporta la nostra presenza in difesa di leggi più umane. Il Jesuit Refugee Service deve spesso operare in un mondo in cui le persone in movimento non sono solo povere ma straniere e profughe.

Questo servizio non sarebbe possibile senza un’ampia collaborazione con i non gesuiti, specialmente laici. È stata l’esperienza americana a ispirarci a sviluppare questa partnership tra laici e gesuiti. Non serviamo bene la Chiesa se restiamo "per gli altri" solo gesuiti. Lo Spirito che ci parla nel Concilio Vaticano II ci ha consentito di riscoprire la Chiesa come comunione in cui siamo chiamati ad essere uomini "per gli altri con gli altri". In tutte le nostre attività, educative e scientifiche, missionarie e pastorali, sociali e legate ai mass media, abbiamo imparato a condividere la nostra eredità spirituale e apostolica: ascoltare ed imparare dagli altri. Questo modello della nostra vocazione gesuita è stato fortemente sviluppato. Spero e prego che, ispirati dal-l’esperienza di S. Ignazio negli Esercizi spirituali, possiamo continuare questa missione che porta i gesuiti, altri religiosi e i laici ad un incontro personale con il Signore, origine della nostra vocazione e della nostra missione nel mondo.

Come descriverebbe la situazione della compagnia oggi?

Con padre Arrupe direi che noi gesuiti non siamo brillanti ed eccellenti come la gente ci dipinge, e non siamo così progressisti, contestatori e liberi pensatori come ad alcuni piace definirci. L’esperienza ignaziana continua a guidarci nel nostro stile di vita fondato sul Signore e in tutte le nostre attività verso il magis, la maggior gloria di Dio, il maggiore servizio al nostro prossimo. Di fronte alle crescenti responsabilità apostoliche, in alcune parti del mondo siamo una società che invecchia con meno risorse umane, e in altre parti siamo una società giovane, prosperosa ma ancora in formazione. È una lotta reale per assicurare al popolo di Dio un servizio di qualità apostolica e per affrontare le nuove e numerose sfide. Ci dovrebbe essere più "santo coraggio" per andare dove c’è più bisogno. Nella misura in cui questo desiderio di maggior gloria di Dio è vivo in noi, come lo è, siamo in linea con ciò che il pastore universale si aspetta da noi.

Vi sono particolari Scritture a cui lei si appoggia nel suo lavoro?

Nel corso della mia formazione linguistica, un professore mi chiese di raccogliere tutte le irregolarità grammaticali e sintattiche nel greco dell’ultimo libro della Bibbia. Scoprii nell’Apocalisse di Giovanni non solo errori linguistici, ma molte immagini illuminanti dell’Uno sul trono, di colui che bussa alla nostra porta, dello Spirito che dice ‘Vieni’. Anche oggi le sue immagini fanno riferimento alla realtà delle Chiese, che dimenticano il loro primo amore, credono di essere vive quando sono morte, ascoltano falsi profeti eppure sono ancora chiamate dal Signore a svegliarsi, ad essere fredde o calde ma non tiepide. Il messaggio di Giovanni non è una profezia di sventura ma una storia di due città: il mondo dell’odio e della distruzione e la nuova santa Gerusalemme che viene da Dio, dove Dio vive in mezzo al popolo.

L’essere generale che cosa le ha insegnato sulla Società, la Chiesa e Dio?

Mi ha insegnato che la parabola del Signore in Mt 13,24 è più che mai la realtà della Chiesa e della compagnia al suo interno. In entrambe il Signore ha seminato buon seme. Il raccolto è maturo; è visibile in tutto il mondo per coloro che vogliono vedere la mano del Signore all’opera. Se apriamo gli occhi, vediamo tanta crescita nella Chiesa e nella Società. Tuttavia, dice la parabola, il nemico della natura umana ha gettato erbacce in mezzo al grano. E il grano e la zizzania sono così inestricabilmente uniti che il Signore del raccolto, nella sua preoccupazione di non uccidere il bene che emerge, li lascia crescere insieme. Che il male si aggrappi al bene che cresce deve essere riconosciuto, ma non ci deve scoraggiare, perché ciò che egli ha iniziato per noi è buono (Gv 1,1-3). Ed essendo sempre con noi e per noi, egli mostrerà al mondo, in modo pasquale, che la vita è più forte della morte, l’amore è più forte di tutto il male possibile.

Che cosa progetta di fare una volta in pensione?

Se tutto va bene, raggiungerò i gesuiti del Medio Oriente, nella speranza di poter essere di aiuto e non di peso in quella regione sconvolta dalla guerra che il nostro Signore ha visto e amato.

Ha qualche consiglio per il prossimo generale?

Non sono libero di dare consigli. S. Ignazio tracciò chiaramente il profilo del superiore generale, aggiungendo qualità a qualità: deve essere uno tra coloro che più eccellono in ogni virtù, e noto come tale da più tempo. Dopo aver detto questo, Ignazio capì che probabilmente il suo profilo era troppo idealista, e quindi aggiunse che se le qualità richieste erano assenti, il candidato avrebbe dovuto almeno non mancare di grande bontà e amore per la Compagnia.

L’aiuto e il favore di Dio fanno molto, e il generale può contare sulla buona volontà e il consiglio dei suoi compagni. Il mio consiglio è di contare sul Signore in un discernimento fondato sulla preghiera sotto e con Pietro, sostenuto dall’unione dei cuori e delle menti di tutti i nostri amici nel Signore.

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