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UNA GUERRA CHE SI PUÒ FERMARE

- LO STRAZIO DEL KIVU

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 87 del 06/12/2008

Le elezioni democratiche congolesi (2006, elezioni che hanno visto un’enorme partecipazione popolare, soprattutto nel Kivu dove le guerre e la continua instabilità provocata dalle molte milizie locali in lotta nel territorio avevano fatto milioni di morti, e continuano a farne).

Lo sfruttamento e la commercializzazione dei minerali del Kivu (oro, coltan, cassiterite; questi ultimi assai preziosi per cellulari e computer), che hanno luogo da anni al di fuori di ogni sistema di regolazione e sotto le più diverse bandiere, sono un potente moltiplicatore di questi conflitti locali, e fanno saltare qualunque accordo si raggiunga.

Non basta, allora, limitarsi a fornire truppe per le forze Onu di interposizione nel conflitto in corso. Né basta inviare aiuti umanitari e ottenere che possano arrivare rapidamente a destinazione. O sollecitare negoziati tra le milizie che si combattono nella regione.

È necessario individuare le cause obiettive dello scontro in atto e mettere ciascuno di fronte alle sue responsabilità.

Chi si scontra e perché nel Kivu?

Da un lato la milizia di Laurent Nkunda, un ex generale congolese di etnia tutsi (il Cndp, Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo, che si dice abbia non più di 6 o 7 mila uomini). Dall’altra l’esercito congolese (debolissimo, mal pagato e mal equipaggiato) e un paio di formazioni paramilitari: quella degli hutu ruandesi rifugiatisi nel Kivu dopo il genocidio del ’94 e la presa del potere da parte del Fronte di Paul Kagame, e non più rientrati in Rwanda (le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda, Fdrl), e quella dei Mayi Mayi (la “Coalizione per la Resistenza Patriottica Congolese), un gruppo nato per contrastare la milizia di Nkunda. Si tratta, per entrambi i gruppi, di poche migliaia di uomini. In mezzo, le forze di interposizione dell’Onu.

La milizia di Nkunda, responsabile di infinite azioni di guerra, con il suo terribile corredo di stupri, di abusi, di ragazzi sottratti alle famiglie e costretti a seguire le milizie, di villaggi dati alle fiamme e di popolazioni che fuggono dalle loro case (Nkunda è stato incriminato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità), ha il sostegno attivo (in uomini e armi) del Rwanda. Il governo ruandese lo ha sempre negato, sostenendo che il conflitto del Kivu è un affare interno congolese. Ma la cosa è evidente a tutti.

Laurent Nkunda, dal canto suo, ha sempre sostenuto di combattere nel Kivu per difendere i tutsi (immigrati qui a più riprese dal vicino Rwanda) dagli attacchi degli hutu ruandesi rifugiatisi nel Kivu nel ’94 (tra cui alcune centinaia di responsabili del genocidio ai danni dei tutsi ruandesi). Ma si tratta di un alibi.

L’unica motivazione comprensibile dell’azione di destabilizzazione che la milizia di Nkunda porta avanti da molti anni in Kivu è quella di volerne fare una sorta di territorio satellite del Rwanda, sottraendolo al legittimo potere dello Stato congolese. Le ricchezze minerarie sono una tentazione molto forte (quest’anno il governo ruandese ha annunciato di aver raggiunto il record nell’esportazione dei minerali, mentre è noto che la produzione mineraria interna è assai limitata; e dunque i minerali esportati sono in larga parte quelli sottratti al Kivu). Inoltre, da sempre il Rwanda lamenta di avere un rapporto squilibrato tra territorio, che è piccolo, e tasso di crescita della popolazione, che è molto intenso. E dunque pone l’istanza di una revisione dei confini.

D’altra parte, la debolezza del governo congolese e la corruzione che lo mina (nonostante la sua piena legittimità democratica, frutto delle elezioni tenutesi nel 2006) rendono in certo senso possibile il disegno del governo ruandese. Anche se la recentissima decisione di Kabila di sottoscrivere un accordo trentennale con la Cina, che prevede la costruzione di importanti infrastrutture in cambio della concessione dello sfruttamento delle principali miniere, sembra una mossa che mette pesantemente i bastoni tra le ruote alle mire espansionistiche del Rwanda e agli interessi occidentali nella zona.

In ogni caso, l’Europa e gli Stati Uniti – oltre che far uscire dalla illegalità lo sfruttamento delle risorse del Kivu da parte delle società minerarie multinazionali – debbono metter fine al sostegno acritico al governo autoritario di Kagame, uscito vincitore dal terribile genocidio del ’94. Di quella tragedia – che la comunità internazionale non ha saputo evitare – l’attuale governo ruandese porta non poche responsabilità (responsabilità che alcune magistrature stanno cercando di accertare). E su quella tragedia sta costruendo una politica arrogante che si manifesta anche come un pesantissimo ricatto morale nei confronti della comunità internazionale.

È a questa arroganza che l’Europa, per difendere la popolazione stremata e straziata del Kivu, deve dire basta.

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