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LA "TERZA VIA" DELLA FINANZA ISLAMICA

- Il Corano e la crisi

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 6 del 17/01/2009

Non ha fine il tormentato dibattito sulla crisi finanziaria, o meglio sulla crisi di una certa finanza, quella di stampo Usa che, in quanto modello dominante occidentale, ha travolto i mercati del mondo intero.

Messa all’angolo nel corso di questi ultimi anni, la cosiddetta “finanza etica” propone un modello di gestione del capitale più vicino all’economia reale, più attento al fattore sociale è il lavoro, lo sviluppo locale, il Sud del mondo, l’ambiente e quindi meno propenso a gonfiare le casse dei mercanti di armi, di farmaci e di petrolio. Ma, fino ad oggi, è rimasta inascoltata, considerata spesso inapplicabile, visionaria, sovversiva o, nella migliore delle ipotesi, utopistica.

A seguito dei continui flussi migratori e dell’innalzamento del prezzo del greggio, che ha portato nelle tasche dei petrolieri arabi un cospicuo flusso di capitali, l’islamic banking ha dimostrato in questi mesi una ottima tenuta e si è affermata come terza protagonista nella gestione del denaro. Una “terza via” che ogni anno marcia a ritmi di crescita del 15% in termini di capitali investiti e che, come ha affermato il 14 ottobre Laheem alNasser, consulente di finanza islamica, è stata toccata solo marginalmente dall’attuale crisi finanziaria.

In realtà, il sistema finanziario islamico replica quello occidentale in quasi tutti i suoi aspetti. E questo rende i due approcci alternativi e perfettamente sostituibili.

L’ingrediente vincente della ricetta islamica è esclusivamente il rispetto della legge coranica, la Sharia, che distingue ciò che è lecito (halal) da ciò che non lo è (haram). Principalmente, sono due i pilastri etici che contraddistinguono l’islamic banking: non è lecito ottenere interessi

sui prestiti né investire in attività immorali (alcool, droga, terrorismo, armi, pornografia, carne suina, gioco d’azzardo).

Nel primo caso, un musulmano che deposita del denaro su un conto corrente rinuncia volontariamente ad ottenere un tasso di interesse fissato a priori e legato al fattore temporale. Stesso discorso vale per i prestiti bancari e per gli investimenti. La legge islamica considera infatti usura (riba) un interesse prestabilito e ottenuto senza rischi, mentre riconosce il guadagno da investimento esclusivamente expost, come premio cioè per una partecipazione al rischio imprenditoriale. Il principale effetto del divieto della riba è che il successo di una banca è vincolato alla bontà dell’investimento. Il valore dell’economia finanziaria e quello dell’economia reale restano legati a doppio filo, si evita così la speculazione e l’investimento in attività non trasparenti, irragionevolmente ambigue e incerte. Secondo Fatima Edouhabi, economista aziendale, laureata all’Università di Bologna e intervenuta il 16 ottobre su minareti.it (il portale del mondo araboislamico italiano), “il sistema capitalistico è in crisi” perché la finanza, “nata per agevolare la circolazione del capitale, è diventata negli anni per lo più speculazione. Titoli azionari in balia di broker senza Il Corano e la crisi scrupolo lontani anni luce dall’economia reale”. Lo stesso disastro sarebbe potuto avvenire in un mercato regolato dalla Sharia, cioè dalla legge islamica? La risposta è no perché, osserva Laheem alNasser, la Sharia “considera illegale la vendita di ciò che non si possiede”.

Da evidenziare, infine, la forte vocazione sociale dei prodotti bancari ispirati alla Sharia. Ad esempio, ha spiegato Susan Dabbous su LeftAvvenimenti del 7 ottobre, il quard alhasan è un “prestito a persone bisognose che non richiede il pagamento di interessi di nessun tipo, ma solo la restituzione della somma (solitamente esigua) e i suoi costi di gestione. Messa così la finanza islamica potrebbe apparire impraticabile o inefficiente, ma basta dare un’occhiata ad un recente rapporto del Fondo monetario internazionale per rendersi conto che le banche coraniche scoppiano di salute”.

 

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