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NUOVO PRESIDENTE, STESSA MUSICA. LA CONTROFFENSIVA DEGLI USA IN AMERICA LATINA

Tratto da: Adista Notizie n° 86 del 05/09/2009

35164. QUITO-ADISTA. Chi si aspettava che l’avvento di Obama segnasse un cambiamento nelle relazioni tra Usa e America Latina è costretto, almeno per il momento, a ricredersi: se la minacciosa riattivazione nel luglio del 2008 (a 50 anni dalla sua soppressione) della IV Flotta degli Stati Uniti in America Latina e nei Caraibi era ancora riconducibile alle mire imperialiste dell’amministrazione Bush, l’accordo con il governo Uribe per l’utilizzo di sette basi militari in Colombia appare, agli occhi dei Paesi latinoamericani, ben più preoccupante. Tanto più di fronte alle pesanti ambiguità che hanno segnato fino ad oggi la posizione degli Stati Uniti rispetto al colpo di Stato contro il presidente honduregno Zelaya, che, guarda caso, stava pensando di trasformare l’importante base militare di Soto Cano in un aeroporto civile. Ce ne è abbastanza per allarmare i governi di sinistra – Venezuela, Ecuador e Bolivia – i quali, nella massiccia presenza militare Usa in Colombia, non possono non vedere una minaccia contro i loro processi rivoluzionari. Minaccia che il governo Uribe, con il suo attacco simultaneo ai governi di Chávez e Correa, accusati di finanziare le Farc, di certo non fa nulla per ridimensionare.

Che infatti tali accuse cadano proprio in coincidenza con l’annuncio da parte di Uribe dell’accordo con gli Stati Uniti non è sembrato casuale ai governi del Venezuela e dell’Ecuador (le cui relazioni diplomatiche con la Colombia sono sospese dal marzo del 2008, cioè dal bombardamento da parte di militari colombiani di un accampamento delle Farc in suolo ecuadoriano). E mentre Quito ha respinto la versione del quotidiano spagnolo El País (1/8) su un presunto appoggio finanziario delle Farc alla campagna elettorale di Correa nel 2006, il governo venezuelano ha richiamato il suo ambasciatore in seguito all’accusa rivoltagli da Bogotà di aver fornito alle Farc dei lanciamissili venduti dalla Svezia a Caracas. Armi che, a giudizio del Venezuela, sarebbero state sottratte dalla guerriglia in un attacco alla frontiera nel 1995, quattro anni prima che Chávez arrivasse al potere. “Come di costume - ha reagito il 30 luglio il Ministero venezuelano del Potere Popolare per le Relazioni Estere - il governo colombiano non spiega come circolino nel suo territorio migliaia di armi in mano a gruppi irregolari, ma esige cinicamente dal Venezuela una spiegazione sull’origine di tre di esse”, nel tentativo di far ricadere la responsabilità di 60 anni di guerra civile sui Paesi vicini, “con particolare preferenza per quelli governati da forze di sinistra”. Ma “se l’oligarchia colombiana, di fronte al suo fallimento storico di costruire un Paese vivibile, ha assunto la disonorevole decisione di cederlo in comodato agli Stati Uniti, dovrebbe dirlo con chiarezza al popolo colombiano, anziché farsi scudo con pretesti assurdi”.


“Sette pugnali”

La più sintetica definizione dell’accordo tra Colombia e Usa è venuta da Fidel Castro, che ha parlato di “sette pugnali” nel cuore dell’America Latina. E sui “venti di guerra che iniziano a soffiare” nel Continente ha lanciato l’allarme il presidente Chávez: “È evidente – ha scritto in una lettera ai presidenti dell’Unasur (l’Unione degli Stati sudamericani di cui fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Guyana, Paraguay, Perù, Suriname, Uruguay e Venezuela) – che, di fronte agli sviluppi progressisti e democratici nel nostro Continente, l’impero nordamericano (...) ha iniziato una controffensiva”, a partire dal colpo di Stato in Honduras il 28 giugno, allo scopo di frenare il processo di integrazione, distruggere il progetto dell’Unasur e restaurare “la dominazione imperialista in tutti gli ambiti della vita delle nostre società”. Severissimo anche Rafael Correa, al suo secondo mandato presidenziale (2009-2013) dopo il trionfo alle elezioni di aprile e, dal 10 agosto, presidente pro tempore dell’Unasur: “Se accettasi basi militari nel mio Paese - ha detto -, se accettassi di coinvolgermi nel Plan Colombia, già da domani, da amico delle Farc, populista e demagogo, diventerei un insigne statista, un democratico esemplare dell’America Latina”.

Critiche durissime alla decisione colombiana di concedere agli Stati Uniti il permesso di operare in sette basi militari del proprio territorio sono giunte dall’Alleanza Sociale Continentale, che, in una lettera aperta ai presidenti dell’Unasur, denuncia “l’incremento della presenza militare Usa in una regione strategica da cui si possono lanciare operazioni su tutto il Continente”. Tale accordo, prosegue la lettera, oltre a concedere l’immunità ai militari statunitensi, sottraendoli così ad ogni controllo giudiziario nazionale e internazionale, permetterà l’interferenza Usa nei processi di integrazione, in chiaro appoggio alle “correnti che vogliono destabilizzare i processi democratici” e costituirà “una fonte di conflitto in una regione che tanti passi avanti ha fatto in direzione della sua autonomia e nella ricerca di cammini propri per il suo sviluppo”.

 

I numeri dell’Impero

Con il nuovo accordo, giustificato dall’amministrazione Obama con la solita motivazione della lotta al narcotraffico, il numero di basi militari Usa nel mondo tocca quota 872, con un dislocamento di 190mila soldati in oltre 40 Paesi, per una spesa di 250 miliardi di dollari ogni anno. In America Latina, come spiega Carlos Fazio nel suo articolo “L’impero contrattacca” (La Jornada, 10/8), la strategia militare Usa era centrata su una rete di basi denominate Centri Operativi di Avamposto (Fol, nella sigla in inglese): quelle di Manta in Ecuador, di Comalapa in El Salvador, di Reina Beatriz (Aruba) e Hato Rey (Curacao) nei Caraibi, funzionanti “come infrastruttura di appoggio alle forze del Pentagono incaricate della guerra controinsurrezionale nella regione” e supportate da una rete di 17 radar e dalle basi di Guantánamo a Cuba e Soto Cano in Honduras, oltre che, dal luglio del 2008, dalla IV Flotta, attiva sul Pacifico e sull’Atlantico. Persa la base di Manta, gli Stati Uniti hanno proceduto a sostituirla con quella colombiana di Palanquero, a cui faranno da appoggio le altre sei basi previste dall’Accordo con Uribe, che farà della Colombia una grande enclave militare Usa nel cuore dell’America Latina, chiudendo il Venezuela “in un triangolo di ferro tra la Colombia, la IV Flotta e le basi di Aruba, Curacao e Soto Cano”.

Dell’accordo tra Usa e Colombia si è ovviamente discusso al vertice dell’Unasur svoltosi a Quito, assente Uribe, il 10 agosto scorso. Ma, nonostante le pressioni dei governi di sinistra, il documento finale dell’incontro non condanna esplicitamente le basi, probabilmente a causa del rifiuto dell’asse Buenos Aires-Brasilia, pur fortemente critico nei confronti del progetto, di compromettere le relazioni con gli Stati Uniti. Se ne riparlerà allora in una nuova riunione, a Bariloche, in Argentina, alla fine di agosto, alla presenza di Uribe. (claudia fanti)

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