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FINE DI UN IMPERO

- Il dollaro non è più moneta di riserva. Punita la politica economica "genocida" degli Stati Uniti anche con il Nobel a Obama

Tratto da: Adista Contesti n° 106 del 24/10/2009

Tratto dal sito "Cubadebate" (voce del "Circolo di giornalisti cubani contro il terrorismo"). (10/10/2009). Titolo originale: "Las campanas están doblando por el dollar".

L’impero statunitense ha dominato il mondo più con l’economia e la menzogna che con la forza. Ha ottenuto il privilegio di coniare moneta convertibile alla fine della Seconda Guerra Mondiale; ha monopolizzato l’armamento nucleare; disponeva di quasi tutto l’oro del mondo ed era l’unico produttore in grande scala, beni di consumo, alimenti e servizi a livello mondiale. Aveva tuttavia un limite nella stampa della carta-moneta: la parità con l’oro, al prezzo costante di 35 dollari l’oncia.

Così è stato per più di 25 anni, fino a quando, il 15 agosto del 1971, con un ordine presidenziale di Richard Nixon, gli Stati Uniti non ruppero unilateralmente questo impegno internazionale gabbando il mondo. Non mi stancherò di ripeterlo: in questo modo hanno scaricato sull’economia mondiale i costi del riarmo e di avventure belliche, specialmente la guerra del Vietnam che, secondo calcoli di ambienti conservatori, è costata non meno di 200mila milioni di dollari e la vita di più di 45mila giovani nordamericani. Su questo piccolo Paese del Terzo Mondo sono state lanciate più bombe di tutte quelle utilizzate nell’ultima guerra mondiale. Milioni di persone sono morte o sono rimaste mutilate.

Sospesa la conversione con l’oro, il dollaro è diventato una moneta che si poteva stampare a volontà da parte del governo nordamericano senza il riferimento ad un valore costante.

I buoni e i biglietti del Tesoro hanno continuato a circolare come divisa convertibile; le riserve degli Stati hanno continuato a nutrirsi di questi biglietti che, da una parte, servivano per acquistare materie prime, proprietà, beni e servizi in qualsiasi parte del mondo e, dall’altro, privilegiavano le esportazioni degli Stati Uniti rispetto alle altre economie del pianeta. Politici e accademici citano spesso il costo reale di questa guerra genocida, mirabilmente descritta nel film di Oliver Stone. Le persone tendono a fare calcoli come se i milioni fossero uguali. Non si rendono conto che i milioni di dollari del 1971 non corrispondono ai milioni del 2009.

Un milione di dollari oggi, quando l’oro – un metallo il cui valore è stato il più stabile per secoli – ha un prezzo che supera i mille dollari l’oncia, vale circa 30 volte quello che valeva quando Nixon sospese la convertibilità. 200mila del 1971 equivalgono a 6 milioni di milioni di dollari nel 2009. Se non si tiene conto di questo, le nuove generazioni non avranno idea della barbarie imperialista.

Allo stesso modo, quando si parla dei 20mila milioni investiti in Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale – nel Piano Marshall, per ricostruire e controllare l’economia delle principali potenze europee che possedevano la forza lavoro e la cultura tecnica necessarie per un rapido sviluppo della produzione e dei servizi – si ignora che il valore reale di quanto investito allora dall’impero equivale al valore internazionale attuale di 600mila milioni di dollari. Non ci si rende conto che 20mila milioni oggi basterebbero appena per costruire tre grandi raffinerie di petrolio, con la capacità di 800mila barili giornalieri di benzina, oltre ad altri derivati del petrolio.

Le società del consumo, lo sperpero assurdo e capriccioso di energie e di risorse naturali che oggi minacciano la sopravvivenza della specie sono fenomeni che non hanno spiegazione in un così breve periodo storico se non si conosce il modo irresponsabile in cui il capitalismo sviluppato, al culmine della sua potenza, ha retto i destini del mondo.

Tanto eclatante sperpero spiega perché i due Paesi più industrializzati del mondo, Stati Uniti e Giappone, sono indebitati approssimativamente di 20 milioni di milioni di dollari. L’economia degli Stati Uniti si avvicina al Prodotto Interno Lordo annuale di 15 milioni di milioni di dollari. Le crisi del capitalismo sono cicliche, come dimostra invariabilmente la storia del sistema, ma questa volta si tratta di qualcosa di più: una crisi strutturale, come spiegava il ministro della Pianificazione e Sviluppo del Venezuela, il professor Jorge Giordani a Walter Martínez nel suo programma su Telesur ieri sera.

Le notizie divulgate oggi, venerdì 9 ottobre, sottolineano dati inequivocabili. Un lancio dell’Afp targato Washington precisa che il deficit di bilancio degli Stati Uniti, nell’anno fiscale 2009, sale a 1,4 milioni di milioni di dollari, il 9,9% del Pil, “qualcosa di mai visto dal 1945, dalla fine della Guerra Mondiale”. Nel 2007 il deficit era stato un terzo di questa cifra. Ci si aspettano deficit di quote elevate per gli anni 2010, 2011 e 2012. Questo enorme deficit è dettato, fondamentalmente, dal Congresso e dal Governo degli Stati Uniti per salvare le grandi banche di questo Paese, impedire che la disoccupazione salga oltre il 10% e tirar fuori gli Stati Uniti dalla recessione. È logico che la nazione verrà inondata di dollari, che le grandi catene commerciali venderanno più merci, che le industrie incrementeranno la produzione, che meno cittadini perderanno le loro case, che la marea di disoccupati smetterà di avanzare e che le azioni di Wall Street aumenteranno il loro valore. È il modo classico di risolvere la crisi. Tuttavia, il mondo non tornerà ad essere quello che era. Paul Krugman, prestigioso Premio Nobel per l’economica, ha appena affermato che il commercio internazionale ha subìto il suo maggiore crollo, ancora peggiore di quello della Grande Depressione, e ha espresso dubbi su un suo pronto recupero.

E non si può inondare il mondo di dollari e pensare che queste banconote senza il sostegno dell’oro manterranno il loro valore. Sono sorte altre economie, oggi più solide. Il dollaro ha smesso di essere la divisa di riserva di tutti gli Stati; anzi, chi lo possiede desidera disfarsene, pur evitando, per quanto possibile, che si svalutino prima di liberarsene.

L’euro dell’Unione Europea, lo yuan cinese, il franco svizzero, lo yen giapponese - malgrado i debiti di questo Paese -, sterlina compresa, insieme ad altre divise, hanno preso il posto del dollaro nel commercio internazionale. E l’oro di metallo torna a diventare un’importante moneta di riserva internazionale. Non si tratta di una mia capricciosa opinione, né desidero calunniare la moneta statunitense.

Un altro Premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, il 6 ottobre, all’Assemblea annuale congiunta del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale svoltasi a Istanbul, secondo quanto riferisce una notizia d’agenzia, ha affermato che “la cosa più probabile è che il biglietto verde non frenerà la sua discesa. I politici non decidono i cambiamenti e tanto meno lo fanno i discorsi”. A Istanbul si è avuta una violenta repressione: l’evento era stato salutato con vetrine di negozi rotte e incendi provocati da lanci di molotov.

Altre notizie riferivano che i Paesi europei temono l’effetto negativo della debolezza del dollaro rispetto all’euro e le conseguenze sulle esportazioni europee. Il segretario del Tesoro degli Stati Uniti ha dichiarato che il suo Paese “ha interesse in un dollaro forte”. Stiglitz ha irriso alla dichiarazione ufficiale e ha detto, secondo l’agenzia Efe, che “nel caso degli Stati Uniti il denaro è stato dissipato per il riscatto multimilionario delle banche e foraggiando guerre come quella dell’Afghanistan”. Secondo l’agenzia, il Premio Nobel “ha insistito sul fatto che, invece di investire 700mila milioni in aiuto alle banche, gli Stati Uniti avrebbero potuto destinare questo denaro ad aiutare i Paesi in via di sviluppo, cosa che avrebbe stimolato la domanda globale”.

Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, alcuni giorni prima aveva lanciato l’allarme avvertendo che il dollaro non poteva mantenere indefinitamente il suo status di moneta di riserva.

Un eminente professore di Economia dell’Università di Harvard, Kenneth Rogoff, ha affermato che la prossima grande crisi finanziaria sarà quella dei “deficit pubblici”. La Banca Mondiale ha dichiarato che il “Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha dimostrato che le banche centrali del mondo hanno accumulato meno dollari durante il secondo semestre del 2009 che in qualunque altro periodo degli ultimi dieci anni e hanno incrementato l’accumulo di euro”.

Ancora il 6 ottobre, l’agenzia Afp ha scritto che l’oro ha raggiunto la cifra record di 1.045 dollari l’oncia, sulla spinta dell’indebitamento del dollaro e del timore dell’inflazione.

Il quotidiano The Independent, di Londra, ha pubblicato un articolo secondo il quale un gruppo di Paesi petroliferi sta progettando di rimpiazzare il dollaro, nelle transazioni commerciali, con una selezione di divise che includerebbe lo yen, lo yuan, l’euro, l’oro e una futura moneta comune. La notizia, filtrata o dedotta con impressionante logica, è stata smentita da alcuni dei Paesi che si presume siano interessati a questa misura di protezione. Non desiderano che il dollaro collassi, ma nemmeno continuare ad accumulare una moneta che ha perso 30 volte il suo valore in meno di tre decenni.

Non posso sorvolare, poi, sul lancio dell’agenzia Efe, che non può essere sospettata di antimperialismo e che nelle attuali circostanze trasmette opinioni di particolare interesse, quali: “Esperti di economia e finanza si sono trovati d’accordo, oggi, a New York, nell’affermare che la peggiore crisi dalla Grande Depressione ha portato questo Paese a giocare un ruolo meno significativo nell’economia mondiale”.

“‘La recessione ha fatto sì che il mondo abbia cambiato il modo di guardare agli Stati Uniti. Ora il nostro Paese è meno significativo di prima e questo lo dobbiamo riconoscere’, ha affermato David Rubenstein, presidente e fondatore del Carlyle Group, la maggiore azienda di capitali a rischio del mondo, nel suo intervento al World Business Forum”. “‘Il mondo finanziario – ha sostenuto - è sempre meno centrato sugli Stati Uniti. New York non sarà più la capitale finanziaria mondiale, ruolo che condividerà con Londra, Shangai, Dubai, São Paulo e altre città’”; “…ha elencato i problemi che dovranno affrontare gli Stati Uniti quando usciranno dalla ‘grande recessione’ nella quale rimarranno ancora ‘per un paio di mesi’”; “…l’‘enorme indebitamento’ pubblico, l’inflazione, la disoccupazione, la perdita di valore del dollaro come divisa di riserva, i prezzi dell’energia…”; “Il governo deve diminuire la spesa pubblica per affrontare il problema del debito e fare qualcosa che piace poco: alzare le tasse”. “L’economista della Columbia University e assistente speciale dell’Onu, Jeffrey Sachs, concorda con Rubenstein: il predominio economico e finanziario degli Stati Uniti ‘si sta spegnendo’”; “Abbiamo lasciato un sistema centrato sugli Stati Uniti per uno ‘multilaterale’…”; “…venti anni di irresponsabilità, prima dell’amministrazione Clinton e poi di quella di Gorge W. Bush, hanno ceduto sotto le pressioni di Wall Street”; “…le banche negoziavano in ‘titoli tossici’ per ottenere denaro facile, ha spiegato Sachs”; “‘La cosa importante ora è riconoscere la sfida senza precedenti che abbiamo davanti per raggiungere uno sviluppo economico sostenibile e coerente con le regole di base fisiche e biologiche di questo pianeta’”.

D’altra parte, le notizie che giungevano direttamente dalla nostra delegazione a Bangkok, capitale della Thailandia, non erano affatto incoraggianti: “La cosa essenziale da discutere – ha informato testualmente il nostro ministro delle Relazioni Estere – è la ratifica o meno del concetto di responsabilità comuni ma differenziate fra i Paesi industrializzati e le cosiddette economie emergenti - cioè Cina, Brasile, India e Sudafrica - e i Paesi sottosviluppati. Cina, Brasile, India, Sudrafrica, Egitto, Bangladesh, Pakistan e i Paesi dell’Alba sono i più attivi. In generale il Gruppo dei 77, nella sua maggioranza, si mantiene su posizioni ferme e corrette. Le cifre di riduzione di emissioni di carbonio che si stanno negoziando non corrispondono a quelle calcolate dagli esperti per mantenere l’aumento della temperatura ad un livello inferiore a 2 gradi Celsius, cioè un 25-40%. In questo momento, il negoziato si muove intorno ad una riduzione dell’11-18%. Gli Stati Uniti non stanno facendo nessuno sforzo reale. Stanno solo accettando un 4% di riduzione rispetto al 1990”.

Stamattina, venerdì 9 ottobre, il mondo si è svegliato con la notizia che “l’Obama buono” spiegato dal presidente bolivariano Hugo Chavez alle Nazioni Unite, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Non sempre condivido le posizioni di questa istituzione, ma mi vedo obbligato a riconoscere che, in questo istante,  a mio giudizio, è una decisione positiva. Compensa il rovescio che Obama ha subìto a Copenaghen quando è stata scelta Rio de Janeiro e non Chicago come sede delle Olimpiadi del 2016, cosa che gli ha procurato adirati attacchi da parte dei suoi avversari di estrema destra.

Molti penseranno che non ha guadagnato ancora il diritto a ricevere tale distinzione. Vogliamo vedere nella decisione più che un premio al presidente degli Stati Uniti, una critica alla politica genocida che hanno seguito non pochi presidenti di questo Paese, i quali hanno portato il mondo al punto dove oggi si trova; un’esortazione alla pace e alla ricerca di soluzioni che conducano alla sopravvivenza della specie.

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