Nessun articolo nel carrello

NESSUNO CANONIZZI SAN ROMERO D’AMERICA: UN “VESCOVO FATTO POPOLO”, NON UN SANTINO

Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 24/04/2010

DOC-2254. SAN SALVADOR-ADISTA. San Romero d’America o santo di Roma? “Che non canonizzino mai san Romero d’America - ha scritto dom Pedro Casaldaliga nel suo libro Il volo del quetzal - perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in un modo del tutto particolare. È già stato canonizzato dal popolo. Non occorre altro”. E al teologo Jon Sobrino: “Guarda, Jon, nessuno deve canonizzare Romero, perché sarebbe come pensare che la prima canonizzazione non è servita”.

Sul versante opposto, Giovanni Paolo II, stendendo le mani sulla tomba di mons. Oscar  Romero durante la sua visita a El Salvador nel 1983, disse, dopo averlo tanto osteggiato quand’era vivo: “Romero è nostro”.

Tra un’affermazione e l’altra, la complessa questione della canonizzazione di mons. Romero. 

 

Tutta colpa della sinistra

Il processo “ufficiale” di beatificazione si trascina a Roma da 14 anni, dalla chiusura della fase diocesana nel 1996. Da fonti vaticane si apprende, secondo quanto riportato dall'agenzia francese specializzata in informazione vaticana I.Media, che la causa “è ferma”, malgrado l’esame dettagliato delle omelie e degli scritti dell’arcivescovo non abbia evidenziato alcuna ombra, né a livello di ortodossia che a quello dell’ortoprassi. Secondo Jesus Delgado - che è stato segretario di Romero, ma che nel corso del tempo si è andato sempre più distinguendo nel processo di ‘accaparramento istituzionale’ della figura dell’arcivescovo martire -, il processo “è praticamente chiuso” e ora è solo una questione di “convenienza”: “Un santo - ha dichiarato - non deve fomentare divisioni, ma essere segno di unità”. Come poi Romero possa essere “segno di unità” tanto per le vittime del Salvador quanto per i loro carnefici (gli stessi che hanno brindato alla notizia dell’assassinio dell’arcivescovo) Delgado non lo spiega. Spiega, invece, come la colpa del ritardo sia, in ogni caso, soprattutto di chi manipola la sua figura, cioè dei sostenitori della Teologia della Liberazione e della sinistra locale e mondiale. Di chi, cioè, impedisce ancora alla Chiesa istituzionale di poter dire “Romero è nostro”.

“Con tutto il rispetto – ha dichiarato, in perfetta continuità con il suo predecessore (l’opusdeista mons. Sáenz Lacalle), l’arcivescovo José Luis Escobar Alas – abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere che la figura di mons. Romero non sia manipolata, politicizzata, strumentalizzata, proprio per il processo che si sta portando avanti”. E al quotidiano di estrema destra El Diario de Hoy (20/3), Delgado ha spiegato che “la figura di mons. Romero è stata manipolata, soprattutto dopo la sua morte”. Addirittura, vi sarebbero “organizzazioni non governative che hanno lucrato sulla sua figura” e “politici che se ne fanno scudo, ma che non credono in lui”. Neppure la Chiesa è del tutto esente da colpe, in quanto non sarebbe stata abbastanza decisa a contrastare la sinistra latinoamericana perché “non ci sottragga questo santo, questo martire, questo sacerdote che è stato mons. Romero”.

Chi manipola Romero?

Ed eccolo qui il Romero che si vorrebbe ‘non manipolato’. Delgado lo dipinge come un uomo dalla salute cagionevole e psicologicamente un po’ instabile, ma reso forte da un intenso amore per la Vergine Maria e una totale obbedienza al magistero dei papi. E ne evidenzia la spiritualità preconciliare, una pratica religiosa centrata sull’amore per Gesù, per la Vergine Maria e per la Chiesa. Ma Delgado è in buona compagnia. Secondo Rafael Urrutia, attuale vicario generale di San Salvador, ciò che caratterizzava Romero era “la sua grande preoccupazione di evangelizzare il popolo di Dio per muoverlo alla conversione”. E una carità “nutrita senza dubbio della vita di preghiera, della vita sacramentale, delle devozioni private al Sacro Cuore di Gesù e alla Vergine Maria, dell’amore per la Chiesa”. Definendo “un’ingiusta semplificazione” quella di chi parla “della conversione di mons. Romero nei suoi ultimi tre anni di vita da arcivescovo”, Sáenz Lacalle spiega che “il Servo di Dio ha sempre vissuto, dai suoi primi anni di sacerdozio, la sua conversione come un’esperienza di fede cristiana, con un profondo senso di abbandono in Dio e nella Chiesa di Cristo mediante una vita spirituale matura e profonda, radicata nella carità pastorale, che è il cammino specifico di santità per qualunque sacerdote”. Andrea Riccardi, sul Corriere della Sera (24/3), lo descrive equidistante dal potere militare e dalla guerriglia, impegnato a respingere “le semplificazioni laceranti per cui o si stava dalla parte dell’ordine o del popolo”, e ciò in linea con quanto mons. Vincenzo Paglia, postulatore della causa di beatificazione dell'arcivescovo, scriveva a proposito di Romero due anni fa sull’Osservatore Romano (che in occasione del XXX anniversario ha invece preferito tacere): che, cioè, l’arcivescovo era “avverso sia alla violenza espressa dal governo militare sia a quella espressa dall'opposizione guerrigliera”, che tentava “di porre rimedio alla violenza condannandola da qualunque parte venisse” e che “non mutò mai parere” sul fatto “che il comunismo fosse da condannare”.

 

Parola di Romero

Ma sono le stesse parole pronunciate da Romero a contraddire tali descrizioni. L'arcivescovo, per esempio, anziché limitarsi alla generica condanna di ogni violenza, ne distingueva la provenienza in maniera netta (per esempio nella Lettera pastorale sulle organizzazioni popolari del 1978), indicando come radice fondamentale di ogni altra violenza quella che chiamava violenza istituzionalizzata - quella cioè di una struttura sociale talmente iniqua da negare alle grandi maggioranze i diritti più elementari - e ritenendo che solo in risposta ad essa si sviluppasse la violenza reattiva delle organizzazioni, per quanto “pensata erroneamente come ultimo e unico modo efficace di cambiare la situazione sociale”. Ma Romero, richiamandosi al concetto di violenza legittima presente nella Populorum Progressio di Paolo VI, sottolineava anche che, finché si fossero mantenute “le cause dell'attuale miseria e l'intransigenza delle minoranze più potenti”, la situazione non avrebbe fatto che peggiorare, rendendo “meno ipotetico e più reale il caso in cui il ricorso alla forza, come legittima difesa”, avrebbe potuto “essere giustificato”.

Allo stesso modo, lungi dall'assumere una comoda posizione intermedia tra il progetto governativo sostenuto dalle forze armate e dalla Democrazia Cristiana (e dagli Stati Uniti) e quello delle organizzazioni popolari e politico-militari, mons. Romero, in maniera prima confusa, poi sempre più lucida e netta, denunciava le responsabilità della Democrazia Cristiana, che con la sua presenza nel governo muoveva “Paesi come Venezuela e Stati Uniti ad appoggiare un'alternativa che si dice antioligarchica, ma che in verità è antipopolare” (omelia del 17/2/80), respingendo il tentativo governativo di mettere sullo stesso piano estrema destra ed estrema sinistra, “perché l'estrema sinistra non è tanto estrema quando si legge il suo Programma di Governo Rivoluzionario” (omelia del 9/3/80) e perché “la sinistra non è in opposizione ai progetti che realizzano il bene del popolo. Infatti le sinistre, come vengono chiamate le organizzazioni popolari, propugnano una linea che converge nettamente verso il bene del popolo” (Diario del 9/3/80).

Quanto al suo rapporto con il comunismo, Romero, nella sua Lettera pastorale Missione della Chiesa in mezzo alla crisi del Paese, sosteneva che non si potesse riservare al marxismo “un trattamento di semplice condanna”, potendo esso intendersi come un sistema di analisi scientifica dell'economia e della società senza alcun danno per i principi religiosi o come “una prassi politica di lotta per il potere” che invece avrebbe potuto “portare a conflitti di coscienza nell'utilizzazione di mezzi e modi non sempre conformi a quello che prescrive ai cristiani la morale evangelica”. Senza neppure mancare di evidenziare come, “di fatto, alcune delle dichiarazioni e azioni antimarxiste” dei cristiani si traducessero in “un appoggio al capitalismo, il quale concretamente è quello che configura la nostra società in un senso ingiusto e anticristiano”.

 

La santità del popolo di Romero

Ma al di là della necessità di contrastare la manipolazione istituzionale della figura di mons. Romero, è il discorso stesso della sua canonizzazione a porre qualche interrogativo. A proposito della ‘conversione al popolo’ vissuta dall’arcivescovo, così infatti scrive Enzo Mazzi: “Fu la sua salvezza perché divenne un altro uomo: restò un contemplativo ma con gli occhi e la sensibilità della gente umile che contempla dal basso, laicamente, cioè con le mani, con i piedi, col sangue, con la collera, con la lotta, con la fede. Si può parlare di Romero senza partire da tutta questa gente, senza vederlo interno al grembo vitale della massa povera della gente del Salvador, generato da lei? Certo che si può, ma facendo torto alla sua seconda nascita. Non ha vissuto per emergere ma per convergere, per dare forza e voce e potere ai senza potere. Pur senza saldare definitivamente, neppure lui, il debito incolmabile che ognuno di noi mantiene verso la coerenza. Non fare santo lui, fare santa tutta questa gente. Questo potrebbe essere l'obiettivo delle comunità di base, delle organizzazioni popolari e della teologia della liberazione. Liberarsi e liberare da tutte le mitizzazioni e santificazioni”.

Di seguito, l’omelia pronunciata da Jon Sobrino durante la messa alla Uca del 24 marzo e quella di mons. Samuel Ruiz durante la messa celebrata lo stesso giorno nella cripta della cattedrale, entrambe in una nostra traduzione dallo spagnolo; l’intervento tenuto da Ettore Masina durante una delle celebrazioni romane del XXX anniversario di mons. Romero e una preghiera in ricordo del “vescovo fatto popolo” scritta il 24 marzo da don Alessandro Santoro. (claudia fanti)

Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.

Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!

Condividi questo articolo:
  • Chi Siamo

    Adista è un settimanale di informazione indipendente su mondo cattolico e realtà religioso. Ogni settimana pubblica due fascicoli: uno di notizie ed un secondo di documentazione che si alterna ad uno di approfondimento e di riflessione. All'offerta cartacea è affiancato un servizio di informazione quotidiana con il sito Adista.it.

    leggi tutto...

  • Contattaci

  • Seguici

  • Sito conforme a WCAG 2.0 livello A

    Level A conformance,
			     W3C WAI Web Content Accessibility Guidelines 2.0

50 anni e oltre

Adista è... ancora più Adista!

A partire dal 2018 Adista ha implementato la sua informazione online. Da allora, ogni giorno sul nostro sito vengono infatti pubblicate nuove notizie e adista.it è ormai diventato a tutti gli effetti un giornale online con tanti contenuti in più oltre alle notizie, ai documenti, agli approfondimenti presenti nelle edizioni cartacee.

Tutto questo... gratis e totalmente disponibile sia per i lettori della rivista che per i visitatori del sito.