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TESTIMONE DI SPERANZA E DI LIBERAZIONE

Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 24/04/2010

Cari fratelli vescovi; care sorelle e cari fratelli ministri, reverendi, sacerdoti, pastore e pastori, religiose e religiosi delle diverse Chiese e congregazioni che ci accompagnano questo pomeriggio; care sorelle e cari fratelli solidali, venuti qui da tutti gli angoli del pianeta; sorelle e fratelli salvadoregni che oggi ci accogliete, è un immeritato privilegio quello di presiedere questa Eucaristia di commemorazione del XXX anniversario della pasqua martiriale di mons. Oscar Arnulfo Romero y Galdámez, il nostro amato Monsignore!

(...) I miei occhi contemplano un avvenimento realmente prodigioso e sorprendente, poiché, pur stando in una cripta, non colgo segni di morte ma di vita; non si rivelano davanti a me gesti di pena né di apatia, ma di un dinamismo che riempie questo luogo di un’energia potente; non vedo volti di dolore e di oscura rassegnazione, ma sguardi pieni di una fede e di una speranza contagiose...

Non è la tomba di un uomo morto - assassinato, più precisamente - quella che da qui osserviamo, ma il faro luminoso che ci ha guidato negli ultimi trent’anni, nella ricerca e nella costruzione del Regno di Dio che Gesù ci è venuto ad annunciare.

È lo stesso prodigio che vivemmo la domenica delle Palme di 30 anni fa, quando, insieme al card. Corripio Ahumada e a mons. Sergio Méndez Arceo, giungemmo dal Messico per accompagnare il popolo salvadoregno nel funerale di mons. Romero. Quella domenica delle Palme che costò la vita di decine di sorelle e fratelli brutalmente repressi e massacrati dai proiettili assassini sparati dalle finestre della piazza della cattedrale. Semplici persone del popolo che, malgrado la repressione, venivano a contemplare per l’ultima volta il volto sereno del loro pastore e a riconoscere quanto per loro egli aveva fatto nei suoi tre brevi anni da arcivescovo di San Salvador.

Ci sorprese quel giorno, come lo fa ora, la piena convinzione che, con quegli ignominiosi eventi, non si spegneva una luce, ma si accendeva un fuoco così potente da superare le frontiere e gli oceani che dividono i nostri continenti.

La fiamma di Romero resterà accesa finché ci sarà qualcuno che si impegnerà a mantenerla viva, come fa questa comunità della cripta.

30 anni fa il mondo viveva una crisi caratterizzata dal-l’imposizione di un sistema politico ed economico che, per mantenersi, esigeva il sacrificio di migliaia di donne e di uomini, trasformandoli in vittime innocenti dell’avidità e del-l’egoismo di pochi. Un sistema che, per operare senza “ostacoli” e senza “contrattempi”, ha fatto ricorso alla militarizzazione e paramilitarizzazione di una società che si presumeva democratica, aprendo così uno dei capitoli più tristi della nostra storia recente.

Si commuovono ancora i nostri cuori nel ricordare quelle madri che percorrevano prigioni ed ospedali in cerca delle proprie figlie e dei propri figli desaparecidos. Ci indigniamo ancora ad evocare quei corpi mutilati, gettati tra i rifiuti, divorati dagli avvoltoi.

Ancora ci addolorano gli oltre 75mila morti della guerra che ha dissanguato il “pollicino dell’America” e le migliaia di martiri di tutta l’America Latina che hanno versato il loro sangue nella difesa dei più elementari diritti umani: il diritto a una vita degna, il diritto alla giustizia, il diritto alla pace.

Non è che io desideri riaprire ferite che a poco a poco sono venute cicatrizzando, ma oggi non possiamo ricordare mons. Romero al di fuori del contesto che come uomo, come pastore e come vescovo gli è toccato vivere: sarebbe un’offesa alla memoria storica del popolo salvadoregno e latinoamericano, e un insulto alle famiglie di queste vittime per le quali egli ha dato la sua vita.

 

Universalità di Romero

Mons. Romero continua a vivere nel suo popolo - come egli stesso profetizzò - ma la sua presenza è un dato non solamente ecclesiale ed episcopale, bensì anche sociologico, un fatto culturale e politico (nel senso ampio della parola e spero così si intenda), che fa parte della realtà dell’America Latina e, quel che è più sorprendente, del suo stesso futuro. Un fatto su cui contare per fare la storia non più solo di questo amato popolo di El Salvador, ma di tutto il continente.

Voglio dire qualcosa che spero non offenda le nostre sorelle e i nostri fratelli salvadoregni, e lo dico con molto affetto e gratitudine: voi avete avuto la fortuna di convivere con mons. Romero, il privilegio di sentirlo, di ascoltarlo, e lo avete e lo vegliate qui, nella sua cattedrale, ma da 30 anni mons. Romero è un essere universale, appartiene a tutta l’umanità, non è proprietà di un gruppo o di un’associazione; la sua parola e la sua opera hanno superato tutte le frontiere umane. Dio stesso, accettando il suo sacrificio, ce lo ha dato come testimone di speranza e di liberazione per tutte le donne e gli uomini che lottano per questi stessi ideali ispirati alla sequela di Gesù nella costruzione del Regno. La vita, il pensiero e l’opera di mons. Romero sono diventati vero sacramento di unità e di solidarietà tra i popoli del mondo. Per questo stiamo qui, per accompagnarvi, per ringraziarvi e per riconoscere questa universalità di Monsignore!

Ricordiamo cosa diceva il documento firmato da un gruppo di vescovi latinoamericani il 29 marzo 1980:

“Su tre cose dell’episcopato di mons.Oscar Arnulfo Romero esprimiamo la nostra ammirazione e la nostra gratitudine: egli fu, in primo luogo, annunciatore della fede e maestro della verità... in secondo luogo, un accanito difensore della giustizia... in terzo luogo, l’amico, il fratello, il difensore dei poveri e degli oppressi, dei contadini, degli operai, di quanti vivono nelle periferie povere”.

“Mons. Romero è stato un vescovo esemplare perché è stato un vescovo dei poveri in un continente che porta tanto crudelmente il marchio della povertà delle grandi maggioranze, si è introdotto tra loro, ne ha difeso la causa e ne ha sofferto la medesima sorte: la persecuzione e il martirio. Mons. Romero è il simbolo di tutta una Chiesa e di un continente, vero servo sofferente di Yahvé che si fa carico del peccato di ingiustizia e di morte nel nostro continente”.

“Non ci ha sorpreso il suo assassinio - prosegue il documento - poiché non poteva essere altro il suo destino, essendo stato fedele a Gesù ed essendosi calato davvero nel dolore dei nostri popoli. La sua morte non è un fatto isolato, ma fa parte della testimonianza di una Chiesa che a Medellín e a Puebla ha optato, a partire dal Vangelo, per i poveri e gli oppressi. Per questo ora comprendiamo meglio, a partire dal martirio di mons. Romero, la morte per fame e malattia, realtà permanente nei nostri popoli, così come gli innumerevoli martirii, le innumerevoli croci che segnano il nostro continente in questi anni: quelle di contadini, operai, studenti, sacerdoti, operatori di pastorale, religiose, vescovi incarcerati, torturati, assassinati in odio alla fede in Gesù Cristo e all’amore per i poveri. Sono come la morte di Gesù: frutto dell’ingiustizia degli uomini e al tempo stesso seme di resurrezione” (Comunicato firmato da vari vescovi, San Salvador, 29 marzo 1980).

Questa universalità egli l’ha conquistata non solo per merito proprio, gliel’ha concessa l’universalità delle vittime innocenti delle guerre, l’universalità degli impoveriti di tutti i luoghi e di tutte le epoche dell’umanità, l’universalità del popolo di Dio che attende con fede l’avvento di “un mondo nuovo e un cielo nuovo”.

 

La nostra realtà

Viviamo oggi, nel 2010, l’acuirsi di questa crisi ereditata dal secolo scorso, in una nuova epoca. Il sistema economico e politico imposto dai potenti, con i loro idoli del denaro e del profitto, hanno escluso più del 70% dell’umanità dai benefici della ricchezza che è di tutti.

Migliaia di bambine e bambini muoiono ogni anno di fame e di malattie curabili; i giovani vengono privati di un’educazione gratuita e liberatrice che li allontani dalle facili reti dell’alcolismo, della tossicodipendenza o delle bande giovanili o maras.

I progressi tecnologici non si traducono in maggiore benessere, ma nella disoccupazione di milioni di donne e di uomini disperati per la mancanza di risorse sufficienti a sostenere degnamente le loro famiglie. Questa disperazione spinge sorelle e fratelli alla pericolosa avventura dell’emigra-zione: sono note le storie di abuso, violenza e morte sofferte dai migranti che cadono nelle reti del traffico di persone o dei corpi di polizia o paramilitari.

Le transnazionali divorano senza pietà le risorse naturali del pianeta, senza curarsi della salute e del benessere di questa generazione e di quelle future.

La violenza istituzionale raggiunge livelli insospettati in tutti i nostri Paesi: alle bande di narcotrafficanti, alle gang, alle maras si uniscono i corpi di polizia corrotti, le guardie bianche, i gruppi paramilitari e i settori dell’esercito che, godendo di completa impunità, provocano il terrore e la morte violenta tra la popolazione civile.

La criminalizzazione della protesta sociale e la persecuzione dei leader popolari da un lato e l’abuso e la persecuzione a danno dei difensori dei diritti umani dall’altro ci parlano di uno Stato repressore che cambia il discorso ma non i metodi di repressione contro il popolo organizzato.

 

L’opzione di mons. Oscar Romero

Mons. Oscar Romero conosceva bene questa violenza.

Quando venne nominato arcivescovo di San Salvador, il Paese già viveva una situazione di repressione e una chiara persecuzione nei confronti dei settori più impegnati della società e della Chiesa. Ed egli visse il sequestro, la tortura, l’esilio e l’assassinio di vari dei suoi sacerdoti, religiose, catechisti e laici impegnati. Questo, come sappiamo, favorì il suo processo personale di conversione, ma ciò che più influì in essa fu la sua chiara opzione per i poveri e per le vittime che si rivolgevano a lui in cerca di una parola di consolazione e di una liberazione integrale. Questa parola è stata scolpita in maniera incisiva nelle sue omelie. Una parola che diceva la verità: per questo lo hanno ucciso come hanno ucciso Gesù che parlava con verità ed era Egli stesso la Verità rivelata dal Padre, come ci dice il Vangelo di San Giovanni. Una verità che, per renderci donne e uomini autenticamente liberi, deve incarnarsi e attualizzarsi nella realtà concreta di ogni popolo, di ogni comunità.

Per mons. Romero, come per molti fratelli vescovi, il Vangelo, il magistero della Chiesa, i documenti del Concilio Vaticano II, di Medellín e di Puebla sono stati uno specchio in cui si riflettevano i suoi progetti pastorali e la sua stessa opzione di sentir con la Iglesia, questa Chiesa universale che è la Chiesa dei poveri, la Chiesa di Gesù. Ma i documenti non fanno la Chiesa, la Chiesa si fa quando questo Vangelo e questo Magistero gettano radici nella comunità che li legge, li medita e li mette in pratica.

Con umiltà Monsignore riconosceva i suoi limiti e la sua condizione umana: il suo diario spirituale ci parla delle sue paure e dei suoi timori, ma anche di una fede indistruttibile e di una coerenza tra la sua riflessione, la sua parola e la sua azione quotidiana. Questa coerenza gli ha dato tutta l’autorità morale per poter denunciare ed esigere a partire dal Vangelo un vero Stato di diritto che rispettasse la dignità umana e che applicasse la giustizia in maniera rapida e imparziale.

Per questo la sua parola è tanto attuale e per questo mi accingo a parafrasare quanto da lui affermato in una delle sue omelie, per dire ai nostri governi del XXI secolo che “a nulla servono le riforme se sono intessute di sangue; a nulla servono i cambiamenti di bandiera, di partiti al potere, le presunte elezioni democratiche se questi cambiamenti non fanno che perpetuare questo sistema di morte... a nulla servono governi emanati dall’opposizione se non combattono a fondo questa violenza strutturale che proviene dagli stessi poteri economici e dalle stesse istanze governative e militari che si sono mantenuti al potere...”.

È giunta l’ora che la società civile organizzata rivendichi per sé il diritto a governare, il diritto a darsi le autorità che merita, il diritto a esercitare pienamente la sua sovranità, ap-plicando una giustizia che non lasci nell’impunità tanti crimini commessi in nome di una presunta democrazia e di un’apparente libertà. Il diritto dei bambini, dei giovani e delle donne, il diritto della terra e della natura. Il futuro è nelle nostre mani, fratelli e sorelle, e non nelle mani di politici corrotti o di militari golpisti.

Così ha letto mons. Romero, in quel tempo e con la massima chiarezza, “la testimonianza sovversiva delle Beatitudini che hanno rovesciato tutto”, comprendendo come bisognas-se togliere alla violenza le sue basi, la violenza strutturale, l’ingiustizia sociale. (...). L’opzione preferenziale per i poveri è un invito alla Chiesa come a un tutto, ma anche ad ogni seguace di Cristo. “Il cristiano che non vuole vivere questo impegno di solidarietà con il povero non è degno di chiamarsi cristiano”, disse, aggiungendo: “I poveri hanno segnato il vero cammino della Chiesa. Una Chiesa che non si unisce ai poveri per denunciare, a partire da loro, le ingiustizie che si commettono ai loro danni non è la vera Chiesa di Gesù Cristo” (omelia  del 23 settembre 1979).

Ed egli riconobbe, in ciò, il proprio compito come arcivescovo: “Questa denuncia credo sia un dovere farla nella mia condizione di pastore del popolo che soffre l’ingiustizia. Me lo impone il Vangelo per il quale sono disposto ad affrontare il processo e il carcere” (omelia del 14 maggio 1978).

 

Conclusione

(...) Le sue parole ci emozionano e ci sfidano ad affrontare con valore questa crisi di cui abbiamo parlato; ci spingono anche ad affrontare la possibilità della morte, come lui l’ha affrontata: “Devo dirvi, come cristiano, che non credo nella morte senza Resurrezione: se mi uccidono, risusciterò nel popolo salvadoregno…”. “Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche quelli che vengano ad uccidermi. Se le minacce arriveranno a compiersi, già da ora offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la resurrezione del Salvador”. “Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, che il mio sangue sia seme di libertà e il segno che la speranza sarà presto una realtà...”.

Dio lo ha premiato con la palma del martirio (...) e lo ha già resuscitato nelle lotte e nel cammino del popolo salvadoregno, del popolo latinoamericano e del popolo internazionalista solidale.

Per tutto ciò, non vi sono dubbi sul significato profetico della sua vita e sul carattere martiriale della sua morte. Per questo, insieme al popolo, insieme alle vittime e ai poveri che egli ha servito, neppure ci sono dubbi sulla sua santità che presto o tardi verrà ufficialmente dichiarata, non per i suoi meriti e per azioni umane ma per l’azione stessa dello Spirito.

In lui vediamo che in America Latina è iniziata una nuova epoca in cui i cristiani, morendo per la fede, danno la propria vita per la giustizia. Questa è stata la verità di Romero, questa è la Verità del vangelo, questa è la Verità che ci libera.

Che mons. Romero, il nostro San Romero d’America, insieme a mons. Proaño, a mons. Gerardi, a don Sergio e ad Angelelli, continui ad illuminare nella Speranza le cause dei poveri, della giustizia e del Regno di dignità e di giustizia per tutte e tutti.

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