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NON SI RIFORMA LA GIUSTIZIA SCARDINANDO LA COSTITUZIONE

Tratto da: Adista Notizie n° 23 del 26/03/2011

Il ddl costituzionale che modifica radicalmente il titolo IV (la Magistratura) della seconda parte della Costituzione si presta a considerazioni sul metodo e sul merito.

Sotto il profilo del metodo, desta perplessità che sia il potere esecutivo a prendere l’iniziativa di modificare le norme costituzionali sulla magistratura: storicamente, infatti, è proprio l’esecutivo il potere da cui l’indipendenza della magistratura ha dovuto difendersi, e la separazione dei poteri è anzitutto riconoscimento dell’autonomia della stessa di fronte alla politica, della quale, anche in considerazione delle più recenti evoluzioni dei sistemi contemporanei, i governi costituiscono il momento più importante e centrale. Tali perplessità sono rafforzate dalla prefigurazione di una riforma costituzionale votata dalla sola maggioranza: dopo il referendum del 2006, fummo in molti nell’associazionismo cattolico a interpretare quel voto popolare come la sconfessione di revisioni costituzionali non largamente condivise.

Venendo al merito dei cambiamenti proposti, le perplessità sono essenzialmente due: la prima riguarda l’attenuazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, la seconda la circostanza che, in luogo di fissare in Costituzione i principi della disciplina, questi siano lasciati, in ordine a profili essenziali della materia, alle leggi future.

Sul primo punto, vengono in rilievo: a) la separazione radicale della figura del pubblico ministero da quella del giudice, nel senso che il singolo pubblico ministero perde la garanzia costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza, ormai predicata soltanto per i giudici e semplicemente demandata alla legge per quanto attiene all’ufficio del p.m.; b) lo sdoppiamento del Csm e soprattutto la rottura del difficile equilibrio costituzionale tra componente togata e componente politica, oltre che la scelta dei togati attraverso un sistema di sorteggio più elezione, suscettibile di dar luogo a spregiudicate manovre pre-elettorali. Occorre in proposito considerare che le norme sul Csm costituiscono uno dei più raffinati e riconosciuti prodotti di equilibrio del nostro costituente: se l’esperienza pratica ha rivelato qualche disfunzione, su quelle si dovrebbe operare e non sul quadro costituzionale.

Sul secondo punto, la circostanza che sia il rapporto tra magistratura e polizia giudiziaria, sia l’obbligo in capo al p.m. di esercitare l’azione penale, sia la stessa separazione delle carriere e l’indipendenza dell’ufficio del p.m. siano demandati alla legge senza che risulti chiaro il principio cui questa dovrà ispirarsi, lascia perplessi: una Costituzione nella quale non sia ben determinata la separazione dei poteri, ci fu insegnato agli albori del costituzionalismo (art. 16 Dich. diritti del 1789), non può nemmeno considerarsi tale.

Scomodare a tutti i costi i principi costituzionali quando le radici di alcune disfunzioni non si trovano in esse, non costituisce, a parere di chi scrive, un buon metodo di legislazione. A meno che, come da qualche parte si è autorevolmente osservato, tali proposte altro non siano in fondo che un diversivo, per distogliere l’attenzione da altri argomenti, connessi con la giustizia (in particolare, il rispetto del principio del pari trattamento di tutti i cittadini davanti alla giurisdizione penale), oppure riferiti ad altri campi dell’azione di governo. Se così fosse, si tratterebbe però di un diversivo pericoloso, perché far dubitare il cittadino della bontà dei principi costituzionali sulla giustizia non rende un buon servizio al bene comune.

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