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La Terra, nostra madre. A lezione dai popoli indigeni sui diritti della natura

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 12/05/2012

DOC-2435. ROMA-ADISTA. Di anno in anno, il 22 aprile, la Giornata della Terra, celebrata dalle Nazioni Unite a partire dal 1970, ricorda all’umanità la necessità di prendersi cura del pianeta di cui è parte integrante. E, di anno in anno, l’invito viene per lo più ignorato, malgrado tale necessità diventi sempre più pressante. Secondo Miguel Palacín Quispe, coordinatore generale del Caoi, il Coordinamento andino delle organizzazioni indigene, non potrà che continuare così finché l’umanità non assumerà una mentalità radicalmente nuova, vedendo se stessa come parte della natura, anziché come qualcosa di separato e superiore, e la natura come soggetto di diritto, anziché come deposito di oggetti inanimati. Proteggerla “da fuori”, in forza di una responsabilità morale dell’essere umano, potrebbe dunque non bastare: occorre, spiega il leader indigeno, contribuire “dall’interno” al suo equilibrio, stabilendo con essa un rapporto di armonia, «attraverso il buen vivir».

Su questa strada, in realtà, qualche passo avanti è stato mosso. Non a caso, sottolinea Palacín Quispe, «l’adozione di una Dichiarazione dei Diritti della Madre Terra da parte delle Nazioni Unite fa già parte dell’agenda internazionale». E, grazie alle pressioni della Bolivia, il tema dei diritti della Madre Terra sarà presente anche nella proposta di negoziazione del G77+Cina (l’organizzazione intergovernativa costituita oggi da 131 Paesi, principalmente in via di sviluppo) in vista della Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile nota come Rio+20, in programma a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno prossimo, vent’anni dopo lo storico Vertice della Terra (v. Adista documenti nn. 98/11 e 6 e 8/12). Come ha spiegato il capodelegazione boliviano René Orellana, il documento del G77+Cina esprime la piena consapevolezza che «la Terra e i suoi ecosistemi costituiscono la nostra casa» e che, «per raggiungere un giusto equilibrio tra le necessità economiche, sociali e ambientali delle generazioni presenti e future, è necessario promuovere l’armonia con la natura», salvaguardando «il funzionamento dei cicli naturali del sistema Terra che producono la vita sul pianeta».

Ma, a fronte di alcune buone notizie, le cattive fanno sentire tutto il loro peso, anche in quell’America Latina che ha espresso alcune delle più convincenti forme di resistenza e di lotta per un altro mondo possibile. E che, ciononostante, è ora attraversata in lungo e in largo da innumerevoli conflitti ambientali (anche, e abbondantemente, nei due Paesi che riconoscono i diritti della Madre Terra nelle loro stesse Costituzioni, l’Ecuador e la Bolivia), legati a quel modello estrattivista che è stato a ragione individuato come la fonte principale delle contraddizioni interne dei governi di segno progressista (v. Adista notizie n. 12/11). Pessime sono, ad esempio, le notizie che giungono dal Brasile, dove, il 25 aprile scorso, la Camera dei Deputati ha approvato con 274 voti a favore, 184 contro e 2 astensioni la contestatissima riforma del Codice Forestale (ribattezzato “Codice di devastazione forestale”), già passata al Senato lo scorso dicembre (con alcune modifiche rispetto al testo approvato dalla Camera dei deputati nel maggio del 2011, v. Adista n. 48/11). Unendosi al «coro di milioni di brasiliani» indignati dall’«imposizione della volontà della bancada ruralista (il settore dei latifondisti al Congresso, ndr) sulla nazione brasiliana», la Commissione Pastorale della Terra della Cnbb (Conferenza episcopale del Brasile) sottolinea, in un comunicato, quanto sia difficile «capire come una fascia rurale che rappresenta appena il 16% del totale della popolazione sia così sovrarappresentata al Congresso» (fino al 52% dei deputati). «Per far valere le loro proposte – si legge nel comunicato – i ruralisti si nascondono dietro il discorso della difesa della piccola proprietà, quando è evidente che ciò che è in gioco sono gli interessi dell’agrobusiness e dei grandi proprietari». Resta ora solo da sperare, secondo la Cpt, che la presidente Dilma Rousseff «tenga fede alla promessa di non accettare passi indietro rispetto alla legislazione forestale e di esercitare il diritto di veto su qualunque forma di amnistia per i responsabili della deforestazione illegale e su qualsiasi riduzione della riserva legale (l’area all’interno di una proprietà rurale destinata ad assicurare l’uso sostenibile delle risorse naturali, ndr) e delle aree di preservazione permanente (le aree protette lungo le rive dei fiumi, ndr)». 

Nessuna speranza sembra restare invece nel caso di un altro famigerato progetto di devastazione ambientale, quello relativo alla costruzione della diga di Belo Monte, la terza più grande del mondo, che coprirà 400mila ettari di foresta pluviale con conseguenze disastrose sul sistema di flora e fauna della regione e sulle condizioni di vita di oltre 25.000 indigeni, liberando inoltre nell’atmosfera un’enorme quantità di metano (25 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra) a causa della decomposizione sott’acqua di larghe fasce di vegetazione. Neppure le pressioni esercitate dalla Commissione interamericana dei Diritti umani dell’Oea (Organizzazione degli Stati americani) a favore di una sospensione dei lavori in attesa di rispondere alle preoccupazioni delle popolazioni indigene che abitano sulle rive del fiume Xingu ha convinto la presidente Dilma Rousseff a ripensare il faraonico progetto, uno dei “fiori all’occhiello” del famigerato Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita (v. Adista nn. 38 e 63/11).

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’articolo di Miguel Palacín Quispe, apparso il 23 aprile su www.ecoportal.net, e, dal portoghese, la struggente testimonianza di dom Erwin Kräutler, vescovo di Xingu, tra i più agguerriti critici della centrale di Belo Monte, e da sempre difensore dei popoli indigeni, pubblicata il 3 aprile sul sito dell’Instituto Humanitas Unisinos (www.ihu.unisinos.br). (claudia fanti)

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