Icona e simbolo dei martiri
Tratto da: Adista Documenti n° 15 del 19/04/2014
Sono grato di poter condividere con voi la parola di Dio in questo giorno in cui ricordiamo e celebriamo la pasqua di mons. Oscar Romero. La parabola del Buon Samaritano, tante volte letta, ci pone dinanzi un dottore della legge - uno che sa tutto, uno per il quale la parola di Dio è pane quotidiano - che incontra Gesù per metterlo alla prova. Come lui, anche noi corriamo spesso il rischio di sentirci superiori: nei confronti di un lavoratore, di una persona che viene da un altro Paese, che appartiene a un’altra etnia, che professa un’altra religione. Superiore l’uomo rispetto alla donna, l’adulto rispetto al bambino, il sano rispetto al malato. Di fronte al pericolo di sentirci superiori agli altri, questa pagina del Vangelo ci mostra come Gesù unisca intimamente l’amore verso Dio con l’amore verso il prossimo, fino ad affermare che chiunque abbia dato anche solo un bicchiere d’acqua al più piccolo dei suoi fratelli è come se l’avesse dato a lui, perché è lì che si incontra il volto di Dio. Un volto che si riflette non solo nel povero che vive con un dollaro al giorno, ma negli indigeni, nelle donne maltrattate, nei tossicodipendenti, in tutti coloro il cui volto è sfigurato, la cui esistenza è ferita.
Siamo chiamati anche noi, se vogliamo essere fedeli al Signore, ad avere compassione, a partecipare a questa sofferenza. Il Signore ci vuole presenti, attivi, impegnati a trasfigurare questo volto di sofferenza in un volto di gioia, di pace, di giustizia, di vita.
Fare memoria oggi di mons. Oscar Romero non significa solo ricordare una figura del passato, ma anche celebrare la nostra vita. Martire vuol dire testimone, colui che dà testimonianza della fede, della vita, della vita di Dio. Non si tratta di un privilegio di pochi, ma di chiunque voglia veramente vivere la propria fede in profondità, con serietà, con gioia.
PER NON PASSARE DALL’ALTRA PARTE
Oscar Romero è martire perché ha provato compassione dinanzi alla sofferenza del suo popolo e ha voluto lavare il suo volto sanguinante. Lo ha fatto come vescovo, come un pastore partecipe della vita, delle sofferenze, delle gioie, dei progetti, dei sogni del suo popolo. E lo ha fatto in contrapposizione al potere, un potere che cerca sempre di farsi alleati coloro che potrebbero criticarlo, giudicarlo, metterlo in discussione. Un potere che ieri aveva una dimensione più politica (oltre che militare) mentre oggi ha a che fare maggiormente con la sfera economica. Quello della Patagonia è l’esempio di una lotta contro i grandi poteri economici che si innalzano al rango Dio, che si sentono padroni e signori del mondo, che si appropriano dell’acqua, delle terre, delle miniere, dei mari, calpestando i popoli che vivono in quella terra, che amano la propria terra, che si sacrificano per la propria terra. E quindi abbiamo il dovere, come cristiani, di lottare per la pace, per la giustizia, per la fratellanza, perché ognuno dei figli e delle figlie di Dio abbia il diritto e il dovere di partecipare dei doni che Dio offre a tutta l’umanità.
Oggi, al volto sanguinante dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, si accompagna anche quello del nostro pianeta. Soprattutto chi ha avuto la grazia di vivere accanto alle popolazioni indigene, sa che anche la Terra di Dio è disprezzata, calpestata, derubata, conosce le ferite inferte alla terra, all’acqua, ai beni che Dio ha elargito a tutti e a tutte.
Come ai tempi di mons. Romero, anche oggi siamo chiamati ad avere compassione, a prendere parte a questa lotta per la giustizia, per la pace, per la fratellanza. È questa la missione di ogni cristiano: preoccuparsi di quali siano le sofferenze del popolo in cui vive. La fede significa non passare dall’altra parte della strada, dall’altra parte della storia. Significa partecipare a questa storia, consapevoli che quanti detengono il potere si preoccuperanno sempre - sempre - più di se stessi, dei propri interessi, che degli interessi e delle necessità dei più poveri. Da che parte stiamo?
Monsignor Romero riceveva continuamente le lusinghe di esponenti del potere politico ed economico che volevano farselo amico per sfuggire alle sue denunce, ma le ha sempre respinte. Con la morte dei suoi fratelli, egli sentiva che moriva anche qualcosa di lui. La sua morte ha fatto fiorire la speranza per un popolo, per tutto un continente, per tutta la Chiesa. La sua esperienza con il suo popolo è la dimostrazione che oggi la persona di fede - che si tratti di un vescovo, di un religioso o di una religiosa, di un laico o una laica - o è un profeta, una parola vivente di Dio nell’oggi, o ha una fede morta. E quindi martiri lo siamo anche noi, oggi, nella misura in cui la parola di Dio viene da noi trasformata in vita, oltre la parola scritta. Nella misura in cui siamo capaci di ascoltare Dio che continua a parlare oggi in ogni popolo e nella terra di tutti. Saremo capaci di ascoltare il grido del nostro popolo, il grido della nostra terra?
Potrebbe sembrare forse più semplice ascoltare questo grido in tempi di dittatura, in El Salvador o in qualsiasi Paese dell’America Latina, quando la morte era più brutalmente evidente, giorno dopo giorno, piuttosto che nell’attuale società capitalistica e consumista, dove la morte è una dolce morte e la sofferenza è più nascosta. Per questo la sfida diventa oggi più complessa. Si tratta di fare quello a cui ci invita papa Francesco: essere missionari, spingerci verso le frontiere, evitare di rinchiuderci nelle nostre liturgie, ampliando invece la liturgia al mondo, sentendo che l’altare è il luogo in cui siamo chiamati a vivere, la terra che abitiamo.
La mia carta pastorale “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana” mi ha offerto la possibilità di visitare molte regioni, soprattutto in America Latina, e di prendere atto che la sofferenza del popolo, la violazione dei suoi diritti, la negazione della giustizia sono le stesse ovunque, ad Aysén, in Chiapas, a Rosario, a Cochabamba o anche qui. Quindi ringraziamo Dio per la possibilità che abbiamo non solo di celebrare e di onorare persone che hanno dato la propria vita come mons. Romero, fino alle estreme conseguenze, ma anche di offrire la nostra, di vita, per il bene dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, assumendoci la responsabilità della nostra fede.
E se c’è chi vuole metterci in guardia rispetto al limite mai tanto chiaro tra la fede e la politica, noi non abbiamo invece alcun dubbio sul fatto che è a partire dalla nostra fede e dalla nostra spiritualità che proponiamo un mondo diverso, cieli nuovi e terre nuove. E neppure abbiamo dubbi sul fatto che, in questo modo, ci scontreremo sempre con i poteri che vogliono calpestare la dignità dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.
È la pace come frutto della giustizia la nostra grande missione: essere missionari significa oggi essere profeti. Mons. Oscar Romero, profeta di giustizia, di pace, di vita, è stato tale perché ha sentito profondamente dentro di sé la presenza di Dio, ma soprattutto perché ha sentito che era il suo popolo la parola viva di Dio. Che questo sia anche per noi un segno per rendere oggi presente la santità attraverso un atteggiamento profetico, missionario, gioioso, vivendo la nostra fede accanto a chi più si sente abbandonato, ai volti e ai cuori sofferenti di Dio.
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