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GUERRA ALLO STATO ISLAMICO. PAROLE E SPERANZE DEI LEADER RELIGIOSI

Tratto da: Adista Notizie n° 43 del 06/12/2014

37891 ROMA-ADISTA. «Non possiamo qui non ricordare le numerose ingiustizie e persecuzioni che colpiscono quotidianamente le minoranze religiose, e particolarmente cristiane, in diverse parti del mondo. Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocefisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti». Un puntuale riferimento, questo di papa Francesco nel discorso pronunciato a Strasburgo davanti all’Europarlamento il 25 novembre scorso (v. notizia precedente), anche alle tragiche vicende di molti Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che, ha detto, «soffrono a causa di confitti interni e per la pressione del fondamentalismo religioso e del terrorismo internazionale».

Un cenno che non poteva mancare, sia perché quasi non passa giorno che Bergoglio non ricordi la tragedia dei conflitti in atto nel Medio Oriente (al ritorno da Strasburgo ha detto che è «quasi impossibile» dialogare con l’Is, ma la sua porta è sempre aperta), sia perché sono conflitti di imperitura attualità, sia perché l’Europa, volente o nolente, vi si trova invischiata. Come del resto gli Stati Uniti, dove l’inefficacia nell’arginare l’avanzata del sedicente Califfato dello Stato Islamico (Is) ha fatto saltare, il 24 novembre, la testa del ministro della Difesa Chuck Hagel: troppo “pacifista”, troppo timido nel consigliare a Obama azioni ben più decise che i bombardamenti con i droni. Forse la decisione che sta prendendo corpo in questi giorni nelle stanze del governo statunitense – chissà con l’appoggio di Paesi europei – è quella dell’invio di truppe di terra, che molti, immemori delle sconfitte subite in Vietnam e in Afghanistan, sollecitano valutandole come risolutive. 


L’Europa batta un colpo. E non armato

Ma è soprattutto all’Europa che le Chiese del Medio Oriente, inorridite dall’eventuale intervento militare internazionale sulle loro terre, rimproverano l’assenza di una mediazione politica di pacificazione: «Mi aspettavo un altro ruolo dall'Europa, che è stata trascinata alla cieca prima nella guerra in Iraq e poi ora in Siria», ha detto il patriarca maronita Béchara Boutros Raї a Vatican insider (22/11). «Alla comunità internazionale diciamo: basta guerra in Siria e in Iraq, basta con la tragedia dei palestinesi. Sono convinto che il conflitto israelo-palestinese sia il grande focolaio» da spegnere. «La soluzione non può essere che quella dei due Stati: perché non si fa? Senza Stato palestinese la guerra non avrà fine». E, poi, «bisogna mettere fine alla guerra in Siria: il papa ha parlato chiaramente del commercio di armi. L'Europa deve aiutare la riconciliazione, deve favorire la ricomposizione del conflitto tra musulmani sunniti e sciiti, e aiutare l'islam a separare la religione dallo Stato». Anche in quanto cristiani, ha aggiunto, pur perseguitati (ma al pari di altre minoranze religiose, quali «musulmani sunniti e sciiti, e gli yazidi», ha voluto precisare), «non chiediamo alcun protettorato! Non chiediamo di essere protetti dall'Occidente». «I fondamentalisti – ha affermato – ci accusano di essere discendenti dei crociati, ma noi viviamo lì da secoli prima dell'arrivo dell'islam. I cristiani del Medio Oriente in 1400 di vita comune con i musulmani hanno trasmesso valori e cultura. L'Occidente, inondando di armi e di soldi, distrugge quello che abbiamo creato e di fatto fa aumentare il fondamentalismo. È triste constatare, guardando a ciò che è accaduto negli ultimi decenni, che i nemici di oggi erano gli alleati di ieri. Ai cristiani non servono appelli perché lascino il Medio Oriente, servono politiche di investimento per lo sviluppo, per poter dare lavoro». 

Contro un intervento armato dall’esterno si è espresso, il 14 novembre, parlando con l’agenzia Fides, anche l'arcivescovo Jacques Behnan Hindo, titolare dell'arcieparchia di Hassakè-Nisibi: «Se l'intervento a guida Usa contro i jihadisti dello Stato Islamico finirà per rivolgersi contro l'esercito siriano», sviluppo realistico e perciò correttamente paventato visto che gli Stati Uniti ritengono che abbattere il governo di Assad vorrebbe dire indebolire l’Is, «in Siria potremmo avere una seconda Libia», cioè un Paese nel caos, senza una governo centrale e in mano a fazioni fra di loro in guerra. 


L’islam moderato alzi la voce

Togliere linfa vitale all’Is sarebbe compito e dovere degli stessi musulmani, ha sottolineato mons. Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei (Iraq), in una Lettera aperta «ai fratelli e alle sorelle musulmani di tutto il mondo» (v. Fides, 20/11) che il patriarca ha diffuso in occasione della sua partecipazione all'ultima conferenza internazionale organizzata a Vienna (18 e 19/11) dal Centro saudita Re Abdullah bin Abdulaziz per il dialogo interreligioso e interculturale (Kaiicid), un summit interreligioso cui hanno preso parte 200 personalità musulmane e cristiane chiamate a riflettere e a confrontarsi sul tema della comune lotta contro la violenza in nome della religione. Nella lettera, il primate della Chiesa caldea rileva che, a differenza «dei nazisti e di altre ideologie mortali del XX secolo», i jihadisti dello Stato Islamico compiono i loro crimini barbari «in nome dell'islam». È perciò «scioccante la latitanza della comunità islamica ufficiale che ha denunciato questi atti solo con dichiarazioni timide e deboli», mostrando l'assenza di una leadership in grado di «far crescere la consapevolezza del popolo riguardo all'incombente pericolo portato dallo Stato Islamico che agisce in nome della religione».

Mons. Sako cita, tra i crimini commessi dai jihadisti in Iraq e Siria, «la violazione della santità di chiese e monasteri» e il rapimento di donne vendute al mercato come schiave. E invita gli studiosi di questioni religiose a «confutare gli argomenti usati dall’Is» ricorrendo anche alla giurisprudenza per denunciare le loro pratiche atroci e marchiare il loro pensiero come un «flagello dell’umanità».


La “Dichiarazione di Amman”

In particolare sul fronte cristiano, nei giorni 22 e 23 novembre, si è svolta ad Amman la seconda Conferenza sui cristiani e l'impatto delle “Primavere arabe”, organizzata dalla Fondazione Konrad Adenauer, dall’al-Quds Center for Political Studies e dalla Danmission Foundation. Gli 80 partecipanti fra politici, intellettuali ed ecclesiastici (di Egitto, Iraq, Libano, Palestina, Siria e Giordania) hanno stilato la “Dichiarazione di Amman”, che è stata definita una road map in 12 punti per favorire «un futuro migliore dei cristiani nei Paesi arabi». Ne riassume il contenuto la Fides (25/11). Nella Dichiarazione si osserva che l'aumento dell'intolleranza nelle società arabe è stato causato soprattutto dall'emergere di una interpretazione estremista degli insegnamenti dell'islam; un processo avvenuto sotto gli occhi di gran parte dei governi della regione, e in alcuni casi con il loro appoggio, che ha trovato risposte inadeguate nelle classi dirigenti del Medio Oriente. È ora improrogabilmente necessario distinguere tra le varie espressioni e tendenze dell’islam politico, e coinvolgere le componenti più avvedute della galassia islamista in una chiara e ferma presa di posizione contro ogni tipo di discriminazione giuridica, sociale e politica nei confronti dei cristiani arabi. Le Chiese e le comunità presenti in Medio Oriente – ribadisce la Dichiarazione di Amman – rappresentano una realtà autoctona e non possono in nessun modo essere identificate come un “corpo estraneo” importato dall'Occidente. 

Intanto la Comunità di Sant’Egidio sta organizzando una conferenza internazionale sul futuro dei cristiani in Medio Oriente: patriarchi e capi delle Chiese cattoliche, ortodosse e cristiane, nonché personalità del mondo musulmano e rappresentanti della politica internazionale, sono convocati per i giorni 5 e 6 marzo 2015. (eletta cucuzza)

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