Nessun articolo nel carrello

L’eredità dei martiri di fronte al futuro

Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 30/05/2015

Questo Congresso di teologia che mi è stato chiesto di inaugurare ha un sapore speciale per me: per la varietà e la qualità dei relatori e dei partecipanti, provenienti da tanti luoghi e così numerosi, come pure per la sua prossimità al 24 marzo, l'anniversario dell'assassinio di mons. Romero, un giorno segnato da un grande orrore e da un grande amore. Ma per me è un congresso speciale soprattutto per il tema: quello dei martiri. Per inaugurarlo, farò alcune riflessioni sui tre elementi del titolo che è stato scelto (“L'eredità dei martiri di fronte al futuro”). “Martiri”, “di fronte al futuro”, “eredità”.

I MARTIRI

Non mi interessano definizioni e casistiche. Qui in El Salvador la parola martiri indica dono di sé e amore, persecuzione e sangue, sia di uomini che di donne, affinché i poveri non siano più oppressi e abbiano vita. Per felice coincidenza, in questi giorni è stata annunciata la beatificazione di uno di questi martiri, mons. Romero, il prossimo 23 maggio, e ha preso il via il processo di beatificazione di un altro di loro, Rutilio Grande. Sono entrambi martiri di questo popolo. 

Rutilio Grande è un simbolo dei martiri che siamo soliti chiamare gesuanici, perché vivono, pensano, sentono e operano, e sono perseguitati e assassinati (più o meno), come Gesù di Nazareth. Uomini, che sono i più noti, e donne, come Ita Ford, Maura Clark, Silvia Arriola (religiose assassinate in El Salvador, ndt).

Insieme a Rutilio sono stati assassinati l'anziano Manuel Solórzano, un delegato della parola di 72 anni, e il giovane Nelson Rutilio Lemos, appena 15enne, attivo nella comunità del padre Carranza. A loro e alle migliaia come loro, nel Sumpul e nel Mozote (due dei più efferati massacri nella storia di El Salvador, ndt), ad Acteal (teatro della strage di indigeni tzotziles nel 1997, in Chiapas, ndt) e in fondo all'Atlantico, dove sono stati gettati i prigionieri politici di alcune dittature del Sud, diamo il nome non tanto di martiri quanto di popoli crocifissi.

Ancora non sappiamo cosa papa Francesco abbia in mente di fare con i circa 500 salvadoregni e salvadoregne assassinati prima e durante la guerra civile i cui casi verranno presentati al Vaticano per un eventuale riconoscimento della Chiesa. Però vorrei dire che finché non si farà qualcosa di importante nei confronti dei martiri - quelli che in vita sono stati poveri, in morte sono stati innocenti e indifesi e dopo la morte sono stati ignorati, coperti dal silenzio e seppelliti nell'oblio - continuerà a registrarsi uno stridente deficit ecclesiale e un'ancor più stridente perplessità teologale: come si può stare in silenzio dinanzi a immense moltitudini di persone che, indipendentemente dalla loro situazione personale e morale, Dio difende e ama, come già evidenziò la Conferenza dell'episcopato latinoamericano a Puebla nel 1979? Diamo un nome e restituiamo dignità a queste moltitudini, e che se ne indichi il numero: 70mila in El Salvador, 120mila in Guatemala, 3 milioni nel Congo... Dare loro un nome deve essere un compito centrale nelle curie, nelle università e anche in congressi come questo. 

In ogni caso, quello che non bisogna mai dimenticare è che lo scompiglio che esiste attualmente all'interno della Chiesa è dovuto a una realtà che avviene all'esterno di essa: l'assassinio ingiusto di persone innocenti che con il loro operare positivo o con la loro presenza in un luogo determinato denunciano e combattono l'ingiustizia che dà morte al povero e alla vedova. Consapevolmente o inconsapevolmente, esprimono l'amore più grande che è dare la vita per i propri fratelli. 


DI FRONTE AL FUTURO

Riguardo ai martiri, si insiste a ragione che nessun mimetismo è possibile, che non si possono cancellare con un atto di volontà i 35 o 25 anni che ci separano dal tempo dei cosiddetti martiri salvadoregni. Sarebbe assurdo, accusano alcuni, cedere alla nostalgia di un passato che è stato glorioso per credenti e militanti. Anche se personalmente credo che nessuno senta nostalgia dei chiodi di una croce e di una corona di spine. 

Con ciò, tuttavia, non è stato detto tutto ciò che è necessario dire in relazione a questo “di fronte al futuro”. 

In El Salvador, come nell'Impero romano in tempi biblici, il martirio ha radici profonde e la linfa di queste radici ha continuato e continua a dare vita. Le radici sono il principio che fa nascere realtà, che produce azioni, idee e progetti. Ne deriva che l'eredità dei martiri deve e può metterci di fronte al futuro, che dobbiamo, sì, orientarci a partire dal passato, ma che, soprattutto, dobbiamo lasciarci catapultare da questo passato verso il futuro. Il problema è che non qualsiasi passato ci catapulta verso il futuro. Ma, di sicuro, è questo che fanno i martiri. E in questo modo nasce una tradizione martiriale analoga alla nostra. I martiri alimentano altri martiri. 

Detto in parole semplici, Marco, all'inizio della missione di Gesù, dice: «Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando l'evangelo del regno di Dio». Si badi bene: dopo che fu messo in prigione. E non passa molto tempo prima che anche lui si veda minacciato: farisei ed erodiani confabulano per sbarazzarsi di lui. Con questo vogliamo sottolineare come, mirando al futuro, non si debba perdere quel senso della tradizione che fa sì che nascano cose nuove. E insistiamo anche sul fatto che si tratta di questa tradizione, non necessariamente di altre, perché non tutte le tradizioni producono martirio. Nessuno di noi è masochista, tutti vorremmo che nella tradizione cristiana non trovassero posto croci ingiuste, ma la loro possibilità deve essere tenuta in conto ed è questo che da anni hanno colto in El Salvador molti cristiani e cristiane. 

Assassinato Rutilio, è apparso mons. Romero - quante volte lo abbiamo sentito dire -; ucciso mons. Romero, sono apparsi altri e altre: si possono ricordare molti nomi di coloro che hanno seguito la prassi di Monsignore e hanno sofferto il suo stesso destino. È la storia reale, concreta, di El Salvador. 

E anche se ora il destino di croce si svolge diversamente da quello dei seguaci di Rutilio, di Monsignore o dei martiri della Uca, sarebbe ingenuo pensare che si possa mirare al futuro senza persecuzione alcuna, perlomeno senza quelle ingiurie e quel disprezzo a cui faceva riferimento Sant'Ignazio di Loyola. 

Guardare al futuro non può significare ignorare e ancor meno disprezzare quello che ha originato vita nel passato: sarebbe ingenuo, o peccaminoso, pensare che il passato sia superato, anche nel caso in cui ciò possa risultare vero rispetto al modo concreto di lottare contro il peccato del mondo. Vi sono forme che possono essere superate, ma non è superato tale peccato. Non a caso oggi, in tempi cosiddetti di pace, si registra in El Salvador lo stesso numero di omicidi che nei tempi di repressione e di guerra. 

In ogni modo, oggi come ieri, e come domani, abbiamo bisogno di fonti di acqua viva. Queste fonti molti dichiarano di averle trovate in Romero e in Rutilio, in Maura Clark e in Julia Elba, e andando più indietro, in Gesù di Nazareth e in Maria.

L'EREDITÀ

Non si tratta del fatto di ricevere talenti e di custodirli perché non vadano perduti. Di questo già siamo stati avvisati! E bisogna fare grande attenzione a non banalizzare e dilapidare quello che i martiri ci hanno lasciato, la loro eredità. Una cosa che può avvenire e che di fatto avviene: si banalizza e si dilapida. Questa eredità bisogna preservarla nell'onestà con la realtà e senza annacquamenti. La verità più reale, quella che più ferisce e più ci interpella, è che il nostro mondo sta molto male. Per citare Ellacuría, che qui ricordo non come grande filosofo, ma come martire, nel 1989, alla fine dei suoi giorni, senza più esaltazioni giovanili, disse lapidariamente: «La nostra civiltà è gravemente malata». Sono forse cambiate le cose da allora? Nel 2005, Jean Ziegler, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, ha affermato che il mondo «è minacciato di morte dal grande capitale finanziario».

Gli elogi della globalizzazione, miopi, fallaci o ipocritamente espressi, non possono occultare il pericolo: «un esito ineluttabile e fatale». Ellacuría denunciò che questa malattia è prodotta dalla civiltà della ricchezza. E concluse evidenziando la necessità di «invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione». Persone piene di speranza dicono oggi che “un altro mondo è possibile”. Ellacuría direbbe che “un altro mondo è necessario”. E la grande domanda è come produrre questa eredità in un mondo infermo. Ripeto nuovamente le parole del martire: «Solo con la forza dell'utopia e della speranza possiamo avere il coraggio di cercare insieme ai poveri e agli oppressi del mondo di invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione». Io, personalmente, aggiungerei: solo con il ricordo dei martiri avremo l'audacia e la speranza di cambiare questo mondo. E avremo anche la lucidità per fare altre cose, per esempio realizzare i necessari progetti storici, economici, sociologici e politici. 

Il mio desiderio è che in questo Congresso si esprima in primo luogo una profonda gratitudine verso i martiri; si cerchi di portare avanti la loro conversione e la loro decisione di correre rischi – troppo poco abbiamo sentito parlare di questo aspetto –; si viva la solidarietà con i poveri e si creda nel fatto che dai martiri sorge una grande speranza. E termino con alcune parole di Moltmann già tante volte citate: «Non ogni vita è motivo di speranza, ma sì lo è quella che per amore ha preso su di sé la croce». Queste parole mi sembrano adatte per iniziare il Congresso. E se ci viene chiesto cosa possiamo offrire, si può tentare di rispondere che i martiri tengono viva la speranza, la prassi di giustizia, la fede nel Dio di mons. Romero e nel Dio di tutte e di tutti i martiri e ci mantengono nella sequela di Gesù.

Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.

Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!

Condividi questo articolo:
  • Chi Siamo

    Adista è un settimanale di informazione indipendente su mondo cattolico e realtà religioso. Ogni settimana pubblica due fascicoli: uno di notizie ed un secondo di documentazione che si alterna ad uno di approfondimento e di riflessione. All'offerta cartacea è affiancato un servizio di informazione quotidiana con il sito Adista.it.

    leggi tutto...

  • Contattaci

  • Seguici

  • Sito conforme a WCAG 2.0 livello A

    Level A conformance,
			     W3C WAI Web Content Accessibility Guidelines 2.0

50 anni e oltre

Adista è... ancora più Adista!

A partire dal 2018 Adista ha implementato la sua informazione online. Da allora, ogni giorno sul nostro sito vengono infatti pubblicate nuove notizie e adista.it è ormai diventato a tutti gli effetti un giornale online con tanti contenuti in più oltre alle notizie, ai documenti, agli approfondimenti presenti nelle edizioni cartacee.

Tutto questo... gratis e totalmente disponibile sia per i lettori della rivista che per i visitatori del sito.