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Giustizia minorile. Se lo Stato rinuncia alla Costituzione

Giustizia minorile. Se lo Stato rinuncia alla Costituzione

- Intervista a don Ettore Cannavera

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 27/06/2015

«Gabrio Forti, professore di Diritto penale e Criminologia e preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, scrive che una giustizia penale è democratica “in quanto mai disgiunta dall’impegno a generare solide risposte educative alla trasgressione”. Questo deve essere l’impegno di quanti operano attorno alla colpa, alla pena, alla riconciliazione. Nel carcere minorile di Quartucciu (Ca), invece, le risposte pedagogiche latitano: tutto o quasi è subordinato alle sole esigenze di custodia e di sicurezza» e «si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere». Con queste parole, contenute in una lunga lettera indirizzata al ministro della Giustizia Andrea Orlando, don Ettore Cannavera – responsabile della Comunità La Collina, destinata all’accoglienza di ragazzi in misura alternativa alla detenzione, e docente di Psicologia generale alla Pontificia facoltà teologica della Sardegna – si è dimesso, dopo 23 anni, da cappellano del carcere minorile di Quartucciu.

Quali motivazioni l’hanno portata a rassegnare le dimissioni da cappellano del carcere minorile?

Le mie dimissioni sono sostanzialmente un gesto provocatorio, che ho compiuto per una serie di ragioni: da circa due anni sto sperimentando l’abbandono dell’impostazione educativa che avevo conosciuto nei vent’anni precedenti, anche se a momenti portata avanti a fatica; la struttura che ospita i ragazzi è del tutto inadeguata ad accogliere minori, si pensi che fu costruita ai tempi del generale Dalla Chiesa per rinchiudervi i terroristi; l’edificio fatiscente è di per sé un segnale dell’abbandono in cui vivono i ragazzi. 

Quindi è la stessa prospettiva rieducativa prevista dall’articolo 27 della Costituzione a non essere attuata?

Esatto. I minorenni dovrebbero stare in carcere il minor tempo possibile, per essere poi accolti in apposite comunità dove continuare a scontare la pena, cioè in strutture in cui possano vivere inseriti nel mondo esterno, al fine di facilitare la ripresa dei rapporti affettivi con i propri familiari, con l’ambiente comunitario in cui vivono, dando loro la possibilità di studiare o di lavorare. L’educazione non può avvenire in un ambiente contenitivo e costrittivo. Un bellissimo libro di Paulo Freire è intitolato L’educazione come pratica della libertà. Non si può parlare di educazione all’interno di un contesto detentivo, dentro un carcere, perché quello è un ambiente destinato unicamente alla contenzione, anche se vi si portano avanti delle attività. Senza libertà non c’è educazione. I ragazzi vanno inseriti in strutture comunitarie, che non sono del tutto libere ma offrono spazi di autonomia, di libertà, di progettualità, che il carcere in sé, al di là della buona volontà e della professionalità degli educatori e della polizia penitenziaria, non può realizzare.

Il concetto di carcere minorile va superato?

È stato superato in tante nazioni del mondo, forse anche meno “evolute” della nostra, e stiamo combattendo perché anche in Italia si arrivi quanto prima alla carcerazione solo per gli adulti. Ma un giorno il carcere andrà superato anche per gli adulti, o dovrà rimanere tutt’al più come misura residuale. Anche se, allo stato attuale, le problematiche delle carceri minorili – ancora di più il discorso vale per gli adulti – non sono nell’agenda dei nostri governanti e dei nostri parlamentari.

Lei dunque si è dimesso per non essere complice?

Proprio così. Per non essere complice di una pedagogia carceraria che non condivido perché carente riguardo all’obiettivo che la nostra Costituzione assegna alla pena: rieducare le persone. Nell’attesa che l’arcivescovo provveda a nominare il nuovo cappellano, continuerò a svolgere il mio servizio in carcere: non abbandonerò i ragazzi. Ho voluto fare un gesto forte nei confronti delle istituzioni competenti per affermare che in quanto cappellano, facente anche parte della Commissione disciplinare, anch’io sono responsabile di quanto avviene nel carcere. Non voglio più avere questo ruolo finché il carcere continua a funzionare in un modo che non condivido.

 

La risposta da parte del ministro l’ha avuta: il 20 maggio, il ministro Orlando, rispondendo a una interrogazione parlamentare presentata dalla deputata di Scelta Civica Paola Pinna, ha sostenuto che il carcere minorile di Quartucciu è pienamente in grado di assicurare lo scopo rieducativo imposto dalla Costituzione. Il ministro ha rimarcato anche che la struttura è dotata di un piano educativo valido e che le attività destinate ai giovani ristretti sono portate avanti da un gruppo di educatori professionisti. Cosa replica?

Gli direi per prima cosa che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Le responsabilità non sono solo del ministro ma di tutta la politica italiana, che non sa e non vuole affrontarle. Credo che il ministro non avrebbe potuto rispondere in modo diverso, anche per non delegittimare i collaboratori che lui stesso ha nominato. Però il ministro non è assolutamente entrato nel merito delle considerazioni precise e dettagliate che ho scritto nella lettera che gli ho inviato. La sua risposta evasiva mi fa un po’ sorridere e mi fa capire ancora di più come la politica – o meglio i politicanti, perché di politici autentici ne abbiamo pochi – sia ben lontana dalla realtà. È stato tuttavia importante che il ministro abbia letto il mio esposto e lo abbia preso in considerazione.

Quanti sono i ragazzi attualmente reclusi a Quartucciu? Quanti sono i dipendenti in servizio nella struttura penitenziaria?

I ragazzi sono quattro, i dipendenti oltre quaranta. Nella lettera inviata al ministro ho fatto presente che «il costo giornaliero attuale per ogni minore detenuto a Quartucciu supera ormai mille euro al giorno e non ci si preoccupa minimamente di reperire altre strutture meno costose per la collettività e più adeguate a una efficace relazione educativa coi ragazzi». Mi sono soffermato anche su altre spese che considero irragionevoli, ma nessuna risposta è stata fornita dal ministro.

Lei ha svolto il servizio di cappellano del carcere minorile per 23 anni sempre come volontario, senza mai ricevere la retribuzione che le spettava da parte dello Stato. Quanto ha risparmiato lo Stato grazie a questa sua scelta? Non sarebbe stato meglio riscuotere lo stipendio e destinarlo magari a sostenere iniziative di carattere umanitario?

Credo che lo stipendio sia di circa 800 euro al mese. Dunque il risparmio per lo Stato potrebbe ammontare a oltre 200mila euro, che non ho mai voluto incassare fin dall’inizio. Ho dovuto fare anche una lettera di rinuncia all’amministrazione penitenziaria precisando che neppure i miei eredi avrebbero potuto incassare tali somme. La scelta è nata dalla mia profonda convinzione che il servizio sacerdotale all’interno del carcere non debba essere retribuito. Certamente vanno retribuiti i dipendenti ma non un prete, che ha il dovere di testimoniare la gratuità andando contro la cultura di cui sono impregnati i ragazzi, e cioè che tutto si debba fare per i soldi. Mi accorgevo che un gesto di gratuità colpiva i ragazzi. A mio avviso non ci può essere processo educativo se non nella gratuità. Proprio per questo ho rifiutato fin dall’inizio di essere pagato per il mio servizio sacerdotale. Ho sempre pensato che il servizio del sacerdote debba essere sempre gratuito, soprattutto in uno Stato laico. Per il sostentamento dei sacerdoti deve intervenire e provvedere la Chiesa locale, anche attraverso il coinvolgimento della comunità cristiana.

Però i cappellani, non solo quelli delle carceri ma anche quelli delle Forze armate, normalmente sono retribuiti, in modo anche cospicuo…

Sì, sono tutti dipendenti dello Stato. La prima contestazione alla scelta da me fatta l’ho avuta proprio dall’allora ispettore dei cappellani, perché creavo un precedente, e mi diceva: «Come farà il tuo successore a chiedere i soldi?». Un prete va in carcere per compiere la sua attività pastorale, e come il parroco va a visitare un ammalato così il cappellano va a trovare i detenuti che gli sono affidati. Ma questa attività non può essere retribuita, e col mio gesto ho voluto mettere in discussione questo principio. Tutti i cappellani, compresi quelli delle Forze armate, sono retribuiti in base ai gradi raggiunti. L’ex arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Mani, che è stato per anni Ordinario militare col grado di generale di corpo d’armata, durante gli anni del suo servizio veniva retribuito come tale, e ora da pensionato percepisce un lauto vitalizio corrispondente al grado ricoperto. Questo le sembra evangelico? 

* Dino Biggio fa parte della Rete Radiè Resch di Cagliari. Ha curato Svegliate Dio (La Collina, 2007), raccolta di conferenze di Arturo Paoli ed è autore, insieme allo stesso Paoli, di Mi formavi nel silenzio (Edizioni Paoline, 2012). La seconda puntata di questa intervista sarà pubblicata sul prossimo numero di Adista Segni Nuovi.

* Foto di Pochestorie, tratta dal sito Flickr, licenzaimmagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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