L’obbligo di denunciare
- Intervista a dom Erwin Kräutler
Tratto da: Adista Documenti n° 26 del 18/07/2015
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Lei è stato tra i collaboratori del papa per la stesura dell'enciclica Laudato si'. Come si è svolta tale collaborazione?
Il 4 aprile dello scorso anno sono stato ricevuto in udienza da papa Francesco nella mia veste di segretario della Commissione episcopale per l'Amazzonia e di presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi). Il presidente della Commissione, il card. Hummes, aveva infatti ritenuto importante che io, che vivo in Amazzonia, potessi parlare direttamente con il papa su quanto sta accadendo nella regione. È stato un incontro straordinario, fraterno, durante il quale ho potuto illustrare la situazione dei popoli indigeni e dei loro ecosistemi nella foresta amazzonica. Papa Francesco mi ha detto che stava preparando un'enciclica sull'ecologia umana e io ho replicato che in tal caso non poteva mancare la questione dell'Amazzonia e dei popoli indigeni. Allora il papa mi ha detto che avrei potuto parlare con il card. Turkson, il quale stava preparando una bozza del documento. In realtà, già la sera prima dell'udienza io avevo cenato in una trattoria di Roma con il card. Turkson, che mi aveva chiesto di trasmettergli alcune idee. Ed è quello che ho fatto al mio ritorno in Brasile, inviando varie cose sui popoli indigeni, sull'Amazzonia, sulle mie preoccupazioni relative alla devastazione dell'ambiente e ai grandi progetti governativi che avrebbero creato ulteriori danni in Amazzonia. Turkson mi diceva che era urgente, tanto che io pensavo che l'enciclica dovesse uscire già lo scorso anno. Quando poi l'enciclica è stata pubblicata, ho visto che tutto quello che io avevo inviato era stato incluso nel documento. Tutto, non manca niente: il papa ha fatto sue tutte le mie preoccupazioni. Per esempio, al paragrafo 38, laddove si parla dei complessi e delicati ecosistemi delle foreste tropicali e degli enormi interessi economici delle multinazionali che si nascondono dietro «proposte di internazionalizzazione dell’Amazzonia». O al paragrafo 146, dove, ponendo l'accento sulla necessità di prestare «speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali», si legge: «Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura». E anche in altri punti si parla di questi temi. Mi sento felice e grato.
Cos'è che più l'ha colpita di questa enciclica?
Varie cose. In primo luogo, il fatto che l'enciclica non è diretta solo ai cattolici, perché la questione dell'ecologia oltrepassa frontiere e confessioni religiose. Il mondo è lo stesso per tutti, cattolici e non cattolici, e sono tutti gli esseri umani ad avere una responsabilità profonda nei confronti della creazione. Il destinatario del papa, insomma, è il mondo intero. In secondo luogo, il papa non intende l'ambiente come qualcosa di separato. In tedesco si dice mitwelt, il mondo con, il mondo con noi: non una Terra che è lì, mentre noi siamo qui; noi, uomini e donne, non siamo al di sopra o al di fuori, noi apparteniamo alla Terra. L'ambiente per noi è una questione di vita o di morte: solo se l'ambiente è sano, siamo in condizioni di sopravvivere, noi e le future generazioni. Così, la nostra responsabilità, sottolinea il papa, non è quella di dominarlo, ma di vegliare su di esso e di prendercene cura. In terzo luogo, mi colpisce il fatto stesso che il papa abbia voluto scrivere un'enciclica sull'argomento. È stato il primo a farlo. Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI hanno parlato varie volte di ambiente, ma solo papa Francesco ha scritto un'enciclica intera «sulla cura della casa comune». Infine, lo stile: è uno stile magnifico. Non c'è bisogno di essere intellettuali per leggerla, qualunque persona può farlo. La lettura è facile e diretta. Sono molto felice di questo documento. Vivo in Amazzonia da 50 anni e in tutti questi anni tali problemi mi hanno toccato profondamente. E ora li vedo esposti nell'enciclica di papa Francesco.
La sua è una delle voci più critiche - ma preferirei dire più “profetiche” - nei confronti dei governi prima di Lula e poi di Dilma Rousseff. Al momento dell'elezione del “presidente operaio”, quando il popolo in festa sognava un altro progetto di Paese, si sarebbe mai immaginato che le cose potessero andare così?
Sono deluso. Molto. Mi fa persino male parlarne. Tutti noi, negli anni '80 e '90, sognavamo un Brasile diverso. E Lula per noi significava tradurre questo sogno in realtà. Eravamo certi che con lui il Brasile avrebbe preso un'altra strada. Non è andata così. Non voglio dire che tutto quello che ha fatto è sbagliato, ma il Brasile che volevamo noi, diverso, onesto, giusto, è rimasto solo un sogno. E con Dilma la situazione si è ulteriormente aggravata. Il Pt ha tradito le aspettative popolari. E la cosa più triste è che tutto quel popolo che occupava le strade ora non c'è più.
Ma c'è ancora per il Pt una possibilità di riscatto?
Sì, ma ci vorrà chissà quanto tempo. Il popolo è disilluso e non sarà facile convincerlo a tornare in strada.
E com'è la situazione dei movimenti popolari?
Sono pochi quelli che hanno conservato uno spirito critico. Ma la Cpt (Commissione Pastorale della Terra) e il Cimi portano comunque avanti le loro rivendicazioni, con qualunque governo, che sia di destra o di sinistra. Abbiamo le nostre bandiere – la causa della terra, la causa indigena – e le difendiamo sempre. È terribile che con Lula e con Dilma il tema della riforma agraria sia scomparso dall'agenda politica. Non se ne parla proprio più. Eppure si trattava della principale bandiera del Partito dei lavoratori! Il Pt è ora ostaggio dell'agrobusiness: la nomina di Katia Abreu al Ministero dell'Agricoltura ne è la dimostrazione più clamorosa. Come se non bastasse, Lula e Dilma non conoscono e non capiscono l'Amazzonia, né comprendono la questione indigena. Con Lula presidente noi pensavamo che le demarcazioni delle aree indigene sarebbero state realizzate. Quanto ci siamo sbagliati! E noi lì a rivendicare e a rivendicare, appellandoci alla Costituzione: la Costituzione del 1988, infatti, esige che vengano demarcate le terre indigene e aveva fissato anche un termine temporale: entro 5 anni, cioè entro il 1993. E da allora sono passati 22 anni.
Lei si è opposto con grande vigore alla costruzione della centrale di Belo Monte, sul Rio Xingu. A che punto sono i lavori?
Stanno terminando. In questo momento le ruspe stanno abbattendo le case di un intero quartiere di Altamira. E sono tante le famiglie che non sanno dove andare. Un terzo di Altamira sarà sommerso, per quanto, ancora oggi, non si riesca a sapere fin dove arriverà l'acqua: ho chiesto informazioni innumerevoli volte e non ho mai ottenuto risposta. E il resto del paese rimarrà ai margini di un lago putrido e infestato di zanzare portatrici di dengue e di malaria.
E la popolazione di Altamira continua a protestare o si è rassegnata?
Siamo rimasti in pochi a lottare. L'anno scorso erano tutti in strada, oggi non più. A darsi da fare sono soprattutto le donne, che fin dall'inizio sono state le vere protagoniste, forse perché maggiormente preoccupate per le future generazioni, mentre gli uomini sono più interessati al guadagno immediato. Il fatto è che il governo usa la tattica del rullo compressore: tu puoi anche protestare, è un tuo diritto democratico, ma tanto non cambia assolutamente nulla. E allora è difficile trovare le motivazioni per scendere in piazza. Ovviamente si promette di tutto e di più e ancora oggi la gente crede a queste promesse: che girerà denaro, che il progresso sarà assicurato, che la diga - la seconda più grande del mondo - porterà sviluppo, che tutti riceveranno un indennizzo, avranno la casa, godranno di migliori condizioni di vita. Solo ora si sta scoprendo che non sarà così, perché quello che ci si aspettava non si è realizzato.
Sembra che i popoli indigeni siano invece ben decisi a lottare. O è solo un'impressione?
Lottano più degli altri. Per loro è questione di vita o di morte. Ma anche nei loro confronti il governo ha una tattica, quella che io definisco come orocidio, in linea con l'etnocidio e l'ecocidio: uccidere con l'oro. Chi riceve oro tace, la persona soccombe al consumismo. Il governo sa perfettamente come uccidere con i soldi. Del resto, se tu sei senza soldi e io arrivo e ti do 10mila euro, tu cosa fai? È chiaro che a questo punto non c'è più discorso. Io lo dico che è come spararsi a un piede. Ma pensiamo a chi è sempre stato maltrattato e non ha mai ricevuto niente, nessuna assistenza, nessuna cura, e che ora all'improvviso vede i soldi. E il vescovo a dire che questo è male. Devono necessariamente passare attraverso tutto ciò.
È cominciata intanto la lotta contro le dighe del complesso Tapajós. Questa almeno potrà essere vinta?
Penso che la nostra lotta abbia delle conseguenze per quella in Tapajós. Noi, nello Xingu, abbiamo perso. Ma loro possono farcela. C'è già la sentenza del Supremo Tribunale Federale, riguardo all’obbligo di tenere un regolare processo di consulta previa, libera e informata dei popoli interessati dal progetto, come previsto dalla Convenzione 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Per me questa è già una vittoria.
Il tasso di deforestazione sta di nuovo crescendo. C'entra qualcosa la riforma del Codice Forestale tanto criticata dalle organizzazioni ambientaliste?
Sì e no. In realtà, tutto è conseguenza di un'errata idea di sviluppo, centrata sull'agrobusiness e sulla crescita delle esportazioni. Così, si abbattono gli alberi per far spazio alle piantagioni di soia, di canna da zucchero, monocolture che richiedono grandi quantità di terra. La foresta, in sé, non ha alcun valore per il governo. Eppure gli scienziati affermano che la scarsità di acqua a São Paulo è una conseguenza della deforestazione in Amazzonia. E io ne sono convinto, perché conosco l'Amazzonia da 50 anni e ricordo bene come era allora, al mio arrivo, rispetto a come è oggi. La differenza è enorme. Io ho conosciuto quella che era la foresta tropicale. Oggi, intorno ad Altamira, non è rimasto quasi più nulla: ci sono municipi che conservano appena il 10% della vegetazione originaria. E in altri municipi la percentuale sale un po' solo perché vi sono aree indigene, ma, al di fuori di esse, è stato tutto abbattuto. Può capitarti di percorrere 200 chilometri senza mai incontrare l’ombra.
Si sta per concludere il suo mandato alla presidenza del Cimi. Il bilancio è positivo?
Sì, abbiamo lottato tanto. La gente a volte pensa che quello che conta è il risultato, ma la lotta in sé ha un valore che non può essere trascurato. Non abbiamo mai ottenuto una vittoria totale, ma una cosa possiamo dirla: non stiamo operando “per” gli indigeni, ma “con” gli indigeni, e c'è una grande differenza. Questa è una vittoria: l'alleanza di non indigeni con indigeni. E un'altra vittoria è rappresentata dal fatto che, se non ci fosse stato il Cimi, la situazione per i popoli indigeni sarebbe ancora più critica. Perché noi siamo un gruppo piccolo, ma molto insistente e il governo non può ignorarci perché questo avrebbe ripercussioni internazionali. Devo dire con molta chiarezza che la Chiesa cattolica ha davvero fatto propria la questione indigena, anche a livello di Conferenza episcopale, la quale, durante tutto il mio mandato, è sempre stata dalla mia parte. Sempre. Ai livelli più diversi, nella Chiesa brasiliana, ci sono state sempre persone pronte a lottare in difesa dei diritti umani, a denunciare, a prendere posizione.
Com’è vivere sotto scorta?
Eh, per nove anni! Io dico sempre che la libertà esteriore è compromessa: non si può muovere un singolo passo da soli. Ma la libertà interiore nessuno te la può togliere: nessuno può impedirmi di dire o di scrivere quello che voglio. Neanche se avessi contro di me un esercito, io tacerei.
Concludiamo con una nota di speranza...
Io non sono pessimista. Continuiamo a lottare. Pensiamo a Gesù: beh, è morto sulla croce, un fiasco completo. Ma ha iniziato una rivoluzione che dura tuttora. Del resto, è solo se ho la certezza del risultato che sono disposto a lavorare? Se una persona ha bisogno di qualcosa, se è in una situazione delicata, se soffre, se è maltrattata, se è violata, io devo comunque fare qualcosa. Quello che ci compete è lottare, non vincere. Certo, la situazione è delicatissima, da noi come qui in Europa. Quando vedo che vengono abbattuti nuovi tratti di foresta, penso che le conseguenze saranno apocalittiche, ma non posso certo paralizzarmi per questo. Ho l'obbligo di parlare, di denunciare, di lottare perché si cambi. Penso che dovremo passare per tutto questo, e che poi ricostruiremo.
* L'immagine ritrae uno scorcio della Foresta Amazzonica nello Stato brasiliano del Pará
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