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Mi armi? Ma quanto mi armi? L'Isis ai tempi del profitto immorale

Mi armi? Ma quanto mi armi? L'Isis ai tempi del profitto immorale

Tratto da: Adista Notizie n° 42 del 05/12/2015

38353 ROMA-ADISTA. Se gli si chiudessero i rubinetti, il sedicente Califfato islamico (Is o Isis o Daesh) smetterebbe prima o poi, forse più prima che poi, di essere quel mostruoso pericolo che è per tutti, a partire dai credenti in Maometto, che ne sono le sue prime, numerosissime vittime. Una ovvietà, si potrebbe dire. Tuttavia nient'affatto contemplata da chi si arricchisce vendendogli armi e comprandogli il petrolio a prezzo ben più conveniente di quello delle “sette sorelle”. Commerci che non avvengono alla luce del sole, ma che si alimentano spesso anche di transazioni commerciali definite legali. Basta fare un esempio, che riguarda l'Italia: vendiamo sistemi d'arma all'Arabia Saudita che, seppure non ufficialmente, foraggia l'Isis. Lo facciamo malgrado ce lo vieti la legge n. 185/1990, che proibisce la vendita di prodotti bellici a Paesi in guerra (il regno saudita bombarda lo Yemen, v. Adista Notizie n. 40/15), ma è anche vero che la forza coercitiva di quel dispositivo legislativo è stata, negli anni, assai diluita grazie ad aggiunte, correzioni, modifiche, precisazioni, fino al Decreto n. 105 del 22 giugno 2012.

Senza considerare che le relazioni commerciali dell'Italia – come di altre nazioni – con i Paesi fiancheggiatori vanno ben al di là dei “soli” mezzi bellici.

Per orientarci meglio in questo ginepraio, che è buona parte dell'humus che nutre Daesh, ci siamo rivolti a Maurizio Simoncelli, di Archivio Disarmo.

Innanzitutto, quali sono le origini di Daesh? E il suo scopo è sempre stato la “creazione” di un territorio per dar vita a uno “Stato islamico” o inizialmente aveva altre mire?

Geograficamente ha preso le mosse dall'Iraq e politicamente dalla resistenza armata di gruppi legati ad al Qaeda contro la presenza statunitense. In seguito, con il conflitto siriano, la sua azione si è espansa anche il quel territorio, conquistandone parte, ponendo la sua capitale a Raqqa e denominandosi Stato Islamico di Siria e Iraq (Isis), acronimo in arabo Daesh.

Nel Medio Oriente, qual è la mappa dei Paesi che lo fiancheggiano o lo sostengono? 

L'Isis si collega alla visione musulmana sunnita più intransigente e quindi in opposizione non solo al governo iracheno sciita e a quello siriano più laico, ma anche al grande vicino iraniano. Paesi invece affini sono l'Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait e diversi Stati del Golfo, dove l'Isis gode di simpatie e di sostegno economico.

Quali di questi Paesi si suppone foraggino l'Isis comprando il petrolio che produce nelle zone che ha occupato e/o vendendogli armi? È noto uno scambio petrolio contro armi?

Da più parti si dice che il petrolio contrabbandato in Turchia e Kurdistan frutti 1 o 2 milioni di dollari al giorno, mentre altri proventi giungono dal narcotraffico e dai rapimenti (tra i 20 e i 45 milioni annui), nonché dalle estorsioni. Questa disponibilità enorme di denaro permette acquisti in tutte le direzioni. Le armi provengono da diverse parti: dagli arsenali dell'ex-esercito di Saddam Hussein e di Gheddafi, da quelli delle milizie anti-Assad poi passate allo Stato islamico, da forniture occidentali (in primis statunitensi) a sedicenti oppositori di Assad (in realtà gruppi dello stesso Isis), dal mercato nero, dai Paesi vicini verso cui in questi anni sono confluiti armamenti in quantità crescente. Infatti, secondo i dati del SIPRI, le importazioni di armi del Medio Oriente nel quinquennio 2010-2014 sono arrivate globalmente a 30.261 milioni di dollari, mentre la spesa è giunta a 769 miliardi di dollari.

Le rivolgo la stessa domanda riguardo ai cosiddetti Paesi occidentali.

È utile citare qualche dato rispetto al ruolo dei fornitori di armamenti al Medio Oriente. Nel quinquennio 2010-2014 i principali fornitori (rispetto al totale degli acquisti del Paese) sono per l'Arabia Saudita la Gran Bretagna (36%), gli Usa (35%) e la Francia (6%), mentre per gli Emirati Arabi Uniti gli Usa (58%), la Francia (9%) e la Russia (9%). Il 47% delle armi inviate alla regione proviene dagli Stati Uniti, il 12% dalla Russia e il 10% dalla Gran Bretagna. Anche l'Italia vi ha esportato per 1.294 milioni di dollari nel periodo 2000-2014: il grosso (847 milioni) proprio nell'ultimo quinquennio, proprio nel periodo della guerra civile siriana. Dal 2003 al 2013 l'Iraq ha importato un'enorme quantità di armi da vari fornitori, compresi oltre 10mila mezzi corazzati dagli Usa. In seguito all'avanzata dell'Isis, molte di queste armi – abbandonate dall'esercito governativo – sono cadute in mano ai ribelli.

Per quanto riguarda l'Italia, le modifiche alla legge 185/90 hanno a quanto pare allentato le maglie del controllo sul commercio armiero, tanto che solo quest'anno sono già partiti almeno tre carichi di prodotti bellici da Cagliari per l'Arabia Saudita. Che non sia in violazione della legge lo ha detto la nostra ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Ha dichiarato che «la vendita delle nostre armi in Medio Oriente è legale», pur affermando che «all'interno dei Paesi arabi ci sono state raccolte di fondi di fondazioni private che dicevano di avere fini caritatevoli e che in realtà finanziavano i terroristi». A quali Paesi mediorientali, attualmente e in vario modo in stato di guerra, l'Italia vende armi “legalmente”?

I nostri principali clienti nell'area mediorientale, oltre la Turchia (nostra alleata nella Nato), sono gli Emirati Arabi Uniti (378 milioni di armi importate nell'ultimo quinquennio), seguiti dal Qatar (96) e dall'Arabia Saudita (89). Ma in seguito alla crociera promozionale "Sistema in movimento", altri contratti lucrosi sono in arrivo, come la recentissima vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait per 8 miliardi di euro. Attualmente stiamo infatti spedendo numerosi carichi di bombe all'Arabia Saudita, impegnata nella guerra nello Yemen. A suo tempo inviavamo armi a Gheddafi, scoprendo dopo alcuni anni che era un dittatore e partecipando alla guerra contro la Libia con gli effetti devastanti che abbiamo sotto gli occhi. In effetti i principi ispiratori della legge 185/90 sono largamente disattesi. Sembra che i nostri governi abbiano fatto proprio il titolo di quel film coraggioso di Alberto Sordi “Finché c'è guerra c'è speranza”.

Qual è, in Italia, il giro d'affari, legale e ufficialmente noto, dovuto al commercio delle armi?

L'Italia ha esportato nell'ultimo quinquennio armi per 4.030 milioni di dollari. Questa cifra però è relativa solo ai maggiori sistemi d'arma (aerei, navi, elicotteri, mezzi corazzati ecc.). Vi vanno aggiunte le armi piccole e leggere sia ad uso militare sia ad uso civile. Secondo l'autorevole "Small Arms Survey" l'Italia è il secondo esportatore mondiale dopo gli Stati Uniti di questa tipologia di armi. Secondo un nostro recente rapporto, pubblicato pochi mesi fa, l'Italia ha esportato armi ad uso civile per un valore di 504 milioni nel 2013 e 457 milioni nel 2014.

Stando a dati riportati da Marco Bersani di Attac, il fondo sovrano del Kuwait detiene il 23% del Fondo Strategico Italiano Investimenti (nato dal Fondo Strategico Italiano che è per l'80% della Cassa Depositi e Prestiti e per il 20% della Banca d'Italia. Ciò vuol dire che una serie di aziende, alcune strategiche (infrastrutture a fibra ottica, valvole per l'industria petrolifera, ecc.), fanno capo indirettamente al Kuwait. Il fondo sovrano del Qatar detiene il 28% di una joint venture costituita nel maggio 2013 con il Fsi (che ne detiene il 50%). Fincantieri (71,6% di Fintecna, società al 100% della Cassa Depositi e Prestiti) è in joint venture con dei cantieri Etihad, attivi negli Emirati Arabi Uniti. Se è vero che questi tre Paesi (solo un esempio) finanziano l'Isis, non è che noi italiani finanziamo i terroristi che vogliamo combattere?

Questi legami economici e finanziari sono la risposta più evidente a domande che altrimenti non potrebbero avere risposte convincenti. Lo stesso discorso vale anche per altri Paesi: insomma, come dicevano i latini, pecunia non olet, ma il circolo vizioso che – volenti o nolenti – ci porta verso l'Isis è proprio questo.

Si può dire che il terrorismo jihadista è diventato un “buon affare” per l'Italia (e non solo), visto oltretutto il rialzo delle quotazioni di Finmeccanica in Borsa il giorno dopo le stragi di Parigi?

Purtroppo, almeno per Finmeccanica (peraltro da tempo non in condizioni floridissime) e per qualche altra azienda, lo è certamente. Le guerre, da sempre, sono un'occasione preziosa per le imprese belliche.

* Immagine di US Military Aircraft, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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