Scongiurato lo scisma: sui matrimoni gay, la Chiesa anglicana fa un passo indietro. Nella storia
Tratto da: Adista Notizie n° 3 del 23/01/2016
38403 CANTERBURY-ADISTA. Il matrimonio è l’unione «tra un uomo e una donna, fedele e per la vita». È inequivocabilmente una condanna netta del matrimonio omosessuale (che comporta anche una penalizzazione del riconoscimento in tal senso operato dalla Chiesa anglicana statunitense) l’esito di una riunione a porte chiuse di 38 primati del mondo della Chiesa anglicana, incontratisi a Canterbury dall’11 al 15 gennaio sotto la guida dell’arcivescovo Justin Welby, che ha tentato in questo modo di risolvere un conflitto che si trascina da anni.
Quello del matrimonio omosessuale, infatti, è un tema che ha diviso a tal punto la Chiesa anglicana da rischiare di provocare uno scisma. A guidare l’ala più conservatrice sono i vescovi africani, mentre sul versante opposto è la Chiesa episcopaliana, che negli Stati Uniti ha da tempo dimostrato il proprio appoggio alle nozze gay, arrivando a riconoscerle lo scorso luglio (v. Adista Notizie n. 25/15).
L’incontro di Canterbury, che ha riflesso le profonde divisioni esistenti all’interno della Chiesa proprio sul concetto del matrimonio (le due “fazioni” hanno addirittura avuto la possibilità di pregare in due strutture separate), ha virato nettamente a favore dei conservatori, decisi a uno scisma qualora l’incontro non avesse sancito il rispetto della visione tradizionale sul matrimonio. L’arcivescovo Stanley Ntagali, primate della provincia ugandese, ha addirittura lasciato il tavolo delle trattative all’inizio dell’incontro, spiegando che l’assemblea provinciale ugandese aveva deciso che non fosse opportuna la sua partecipazione ad alcun incontro della Comunione anglicana finché l’ordine non fosse stato ristabilito.
«I recenti sviluppi nella Chiesa episcopaliana rispetto al cambiamento del loro canone riguardante il matrimonio – si legge in un documento diffuso il 14 gennaio – rappresenta una deviazione fondamentale rispetto alla fede e all’insegnamento condiviso dalla maggior parte delle nostre province sulla dottrina del matrimonio. La dottrina tradizionale della Chiesa alla luce dell’insegnamento delle Scritture considera il matrimonio come unione tra un uomo e una donna fedele e per la vita. La maggioranza di coloro che si sono riuniti riafferma questo insegnamento». La decisione della Chiesa episcopaliana negli Stati Uniti di riconoscere il matrimonio gay rappresenta dunque, prosegue il documento, «un allontanamento dalla reciproca responsabilità e dall’interdipendenza derivante dalla mutua relazione tra le Chiese della Comunione anglicana»; «azioni di questo tipo danneggiano la nostra comunione e creano una profonda diffidenza al nostro interno».
Di qui la dura “punizione” comminata ai fratelli statunitensi: data la gravità di tale questione, si legge ancora nel documento, i 38 primati della Comunione anglicana hanno deciso di escludere la Chiesa episcopaliana dalla partecipazione a «decisioni su temi riguardanti la dottrina o l’ordinamento» della Chiesa anglicana per un periodo di tre anni, chiedendo che essa «non ci rappresenti più negli organismi ecumenici ed interreligiosi, e non sia nominata o eletta all’interno delle commissioni permanenti». Nessuno scisma, in ogni caso: questa risoluzione, afferma il documento, «riconosce la significativa distanza che resta ma conferma l’impegno unanime a camminare insieme». I primati chiedono all’arcivescovo di Canterbury, in quanto primate della Comunione anglicana, di creare un gruppo «che mantenga il dialogo con l’intenzione di restaurare la relazione, la ricostruzione della fiducia reciproca, sanando la ferita, riconoscendo la portata del valore comunitario e esplorando le nostre profonde differenze».
La Chiesa episcopaliana aveva detto “sì” al matrimonio gay il 1° luglio scorso a stragrande maggioranza, coerentemente con la linea che, avviata più di un decennio fa con l’elezione del primo vescovo gay, Gene Robinson, ha sempre cercato di ampliare gli spazi per le persone Lgbt. A pochi giorni dal voto della Corte suprema che aveva sancito la legalizzazione delle nozze gay per tutto il Paese, la mozione era infatti stata approvata dalla House of Deputies, l’organo composto di laici e clero, e dalla House of Bishops. Si trattava della conclusione di un processo durato quarant’anni, non scevro di profonde fratture e conflitti, che contemplava comunque per il clero l’opzione di esercitare il proprio diritto all’obiezione di coscienza, qualora non intendesse celebrare un matrimonio omosessuale.
Con quella decisione, il ramo nordamericano della Chiesa anglicana, che fino a quel momento aveva permesso ai pastori di celebrare una qualche forma di benedizione delle coppie gay, si univa ad altre due importanti Chiese protestanti che prevedono il matrimonio omosessuale, la United Church of Christ e la Presbyterian Church, mentre la Chiesa evangelica luterana americana, con i suoi 3,8 milioni di aderenti, lascia in merito piena libertà alle congregazioni. Alla vigilia del voto, l’arcivescovo di Canterbury, prevedendone l’esito, aveva tentato invano di frenare i confratelli d’Oltreoceano, con una dichiarazione in cui esprimeva una profonda preoccupazione rispetto alla loro decisione di cambiare la definizione del matrimonio.
La Chiesa episcopaliana, d’altronde, è sempre stata la provincia “ribelle” della Comunione anglicana, quella più incline a salti in avanti, anche a costo di qualche strappo. Fu ciò che avvenne nel 2003, quando elesse Gene Robinson, che conviveva con il suo partner, a vescovo della diocesi del New Hampshire. Ciò causò una spaccatura all’interno della Chiesa degli Stati Uniti, in conseguenza della quale fu creata, nel 2009, la Anglican Church in North America (Acna), nella quale confluirono i settori più conservatori, che non potevano tollerare la “deriva” intrapresa dai confratelli episcopaliani. All’incontro di Canterbury, per la prima volta hanno partecipato i vertici di entrambe le Chiese.
Le reazioni dei progressisti
La vittoria della posizione conservatrice sarà dura da digerire per la parte più aperta della Chiesa anglicana. La grave deliberazione dei primati anglicani ha già cominciato a provocare reazioni di rifiuto, anche alla base. «Oggi è uno di quei giorni in cui mi vergogno di essere anglicano», ha twittato il parroco londinese Giles Fraser, esortando la Chiesa d’Inghilterra ad appoggiare la sorella d’oltreoceano. In un’intervista al quotidiano britannico The Independent (14/1), Fraser ha raccontato di aver appreso la notizia del “verdetto” dopo aver partecipato alla celebrazione di un matrimonio gay. «Si trattava di un’occasione gioiosa – ha spiegato – e l’allarmismo che proviene da certi settori della Comunione non può distruggere l’amore che due persone nutrono l’una per l’altra e la loro necessità di esprimere quell’amore nel matrimonio». Non è così pessimista, in ogni caso, sul risultato dell’incontro di Canterbury: «I grandi accordi transnazionali di questo genere – ha detto – sono in realtà dei progetti piuttosto pretenziosi. Per me in quanto parroco non fa nessuna differenza».
Una Chiesa che perde pezzi
È certo che i conflitti dottrinali che lacerano da anni la Chiesa anglicana (che conta nel mondo circa 80 milioni di aderenti), non fanno che peggiorare il suo stato di salute, in particolare in Gran Bretagna dove da tempo versa in una situazione di crisi, come dimostra il calo del 10% di fedeli osservanti tra il 2004 e il 2014: sulla popolazione totale inglese, solo un 1,4% assiste al culto domenicale; se nel 2012 i cittadini britannici anglicani erano il 22% della popolazione credente del Paese, nel giro di due soli anni sono scesi al 17%.
* Justin Welby. Immagine di Foreign and Commonwealth Office, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
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