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Il ritorno di Saul primo re di Israele. Una spiegazione della politica israeliana

Il ritorno di Saul primo re di Israele. Una spiegazione della politica israeliana

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente riflessione firmata da Torquato Cardilli, già Ambasciatore d'Italia in Tanzania e Comore (1993-1997), nel Regno dell'Arabia Saudita (2000-2003) e in Angola e nella Repubblica di São Tomé e Príncipe (2005-2009).

In un mondo di apatici, indifferenti, ipocriti, di ripiegati su se stessi, di interessati solo al proprio benessere, incuranti delle atrocità e delle sofferenze altrui, vorrei cercare di dare una spiegazione della politica israeliana, rifuggendo da qualsiasi esemplificazione di sapore antisemita.

Un tempo per esprimere in modo primitivo il concetto di ingratitudine si ricorreva alla definizione “white man speak with forked tongue" (l’uomo bianco parla con lingua biforcuta) data da un capo pellerossa, che riferendosi ai bianchi invasori, sistematici traditori della parola data, sterminatori di nativi, che sospingevano i superstiti della strage in riserve sempre più ristrette e inabitabili, dopo averne depredato terre e ricchezze. Il comportamento viscido e letale del serpente era il prezzo che la civiltà bianca pagava ai pellerossa in ringraziamento della loro carità per averli sfamati (Thanksgiving) quando i primi coloni stavano morendo di fame.

Questa definizione ricorda il rapporto tra ebrei e arabi.

Quando il mondo cosiddetto civile fino a tutto l'800 (Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Germania, Russia, Grecia, Italia, Balcani ecc.) perseguitava, uccideva, segregava, umiliava, cacciava via dal Paese gli ebrei, questi trovavano asilo e protezione sicura solo nei Paesi arabi dal Nord Africa alla mezzaluna fertile. Lì, come popolo protetto dal Corano, prosperarono raggiungendo posizioni di prestigio nelle società locali.

In cambio di tale ospitalità a fine '800 è arrivata l'ingratitudine del sionismo, propugnato da ebrei europei e americani che coltivavano il sogno della ricreazione del regno di Israele sulla base di un programma politico religioso teso ad appropriarsi della Palestina.

Da allora la Bibbia non restò più confinata alle preghiere, ma costituì per i sionisti la fonte del diritto che riconosceva l'assegnazione da parte di Dio della terra tra i due grandi fiumi (dal Nilo all'Eufrate) al patriarca Abramo, nato a Ur, che cominciò la migrazione dalla Mesopotamia e a Mosè, liberatore degli ebrei dalla schiavitù del Faraone, che diede inizio dall’Egitto alla conquista della terra promessa, che però era di altri.

Israele ha reso esplicita l'ambizione imperiale-colonialista sin dall'armistizio imposto dalle grandi potenze dopo la prima guerra contro gli arabi del 1948 attraverso raid di guerriglia (raid a Gaza, Ras al-Ain, deir Yassin, Khan Yunis, ecc.) e trappole tese dell’Irgun, primo gruppo terroristico del Medio Oriente.

Gli arabi, che non avevano accettato la spartizione della Palestina in due Stati (uno arabo e l’altro ebraico) decretata dall’ONU, ritenendola un tradimento dopo le promesse di indipendenza della loro terra, non si resero conto che ogni loro rifiuto non faceva altro che rafforzare la giustificazione del piano espansionista di Israele.

La strategia di ingrandimento territoriale, preparata a lungo, aspettava solo l'occasione propizia che fu offerta nel 1956 da Nasser con la nazionalizzazione del Canale di Suez, sottratto al controllo franco britannico.

La società del Canale fece pressioni sui rispettivi governi per un energico intervento anti-egiziano per riprendere il controllo del Canale, ma né Londra, né Parigi volevano apparire, in epoca di decolonizzazione, fautori di un nuovo imperialismo.

Perciò, in modo del tutto segreto i plenipotenziari politici francesi e inglesi si riunirono con quelli israeliani a Sèvres a metà ottobre 1956 per un immediato piano di aggressione contro l’Egitto. L'intesa prevedeva che Israele avrebbe attaccato l’Egitto, invadendo il Sinai fino al Canale e che Francia e Gran Bretagna sarebbero intervenute, con squadre navali e paracadutisti, facendo finta di separare i contendenti ma in realtà per riprendersi il Canale con una zona di rispetto di dieci chilometri da ciascuna riva.

Le cose andarono esattamente come pianificato, senonché l'URSS che aveva già mostrato i muscoli con durezza schiacciando la rivolta in Ungheria, lanciò un vero ultimatum agli invasori. In quel caso gli USA diedero prova di saggezza e obbligarono Francia, Gran Bretagna e Israele a ritirarsi.

Venendo ai giorni nostri nulla è cambiato nell'impostazione colonialista messianica di Israele. Le guerre che si sono succedute, sono state delle trappole in cui sono caduti tutti come allocchi: le cancellerie occidentali non hanno capito la subdola motivazione, gli eserciti arabi si sono rivelati assolutamente impreparati, e i vari tronconi palestinesi sono finiti nel baratro dell’oltranzismo estremista, genitore del terrorismo internazionale.

Ogni volta che la vertenza israelo-palestinese sembrava prossima a conclusione (accordi di Camp David e Oslo) succedeva qualcosa che impediva l'ultimo miglio del percorso di pace.

Solo allora fu evidente che Israele parlava con la lingua biforcuta perché la pace avrebbe significato lo stop al processo di allargamento coloniale comandato da Dio e cioè l’abbandono della promessa messianica.

Quanto all'Occidente, inorridito dalla Shoah, rimase chiuso nel bozzolo della difesa a oltranza di Israele di cui veniva minacciata l'esistenza, rifiutando di comprendere che era invece Israele a volere la cancellazione del popolo palestinese, previsto dalla Bibbia.

Del resto, il capitolo 7 del Deuteronomio si apre con parole durissime relative al comando di presa di possesso della terra promessa «il signore tuo Dio avrà messo le nazioni che vi vivevano in tuo potere e tu le avrai sconfitte e votate allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà».

È questa la sostanza del discorso: in Israele gli ambienti più reazionari, retrogradi, estremisti si servono, come tanti zeloti, della Bibbia per giustificare il diritto di conquista, sancito da Dio e messo in pratica dall'esercito e dai coloni, veri terroristi dell’Irgun.

Israele, credendo di agire su mandato divino, sicura dell'appoggio degli Stati Uniti, imperterrita ha proceduto in un cammino insanguinato accumulando crimini su crimini, in violazione del diritto internazionale, del diritto umanitario, delle convenzioni di Ginevra sulla guerra, delle Risoluzioni delle Nazioni Unite, degli appelli della comunità internazionale.

Siamo all’epilogo della tragedia umana che ha superato i 60.000 morti e 200.000 feriti inclusi centinaia di operatori sanitari, dell’Onu, della stampa, tutti considerati nemici. I sopravvissuti, donne senza più lacrime, bambini senza sorriso e incapaci di piangere per la fame, uomini senza speranze si accalcano l’uno sull’altro per conquistarsi, nonostante il tiro al piccione dei militari israeliani, una razione di cibo ipocritamente lanciata da chi davanti alla ferocia della tragedia vuol lavarsene le mani.

Finché gli Usa, che sono responsabili del sostegno alla carneficina di Gaza, non forzeranno Israele a fermarsi, il mondo assisterà allo sterminio di un popolo da parte di un discendente di Saul primo re di Israele della tribù Benjamin, come Netanyahu, e finché l’Occidente non avrà compreso questa lampante verità sarà negato e non riconosciuto il diritto all'indipendenza e all'autodeterminazione del popolo palestinese.

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