Referendum No Triv: votare Sì per fermare le petrolobby
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 11 del 19/03/2016
Confesso che l'iniziativa referendaria No-Triv non mi ha entusiasmato, anzi. Da subito ho manifestato perplessità sul contenuto e sulla formulazione di alcuni quesiti ed ho avvisato che la strada referendaria avrebbe potuto rivelarsi un'arma a doppio taglio.
Tuttavia il 17 aprile responsabilmente mi recherò alle urne per esprimere il mio Sì. Lo farò per scongiurare il pericolo che la sconfitta del fronte referendario possa essere utilizzata dalle petrolobby come una ratifica della folle, miope e scellerata politica fossile dettata al governo da Assomineraria. Non dico che voterò turandomi il naso, ma di certo voterò sì nutrendo l'amara consapevolezza che questa stagione referendaria, lungi dal rivelarsi un successo, ha consegnato una bella casacca antitrivelle nelle mani di personaggi che hanno assecondato tutte le scelte a favore delle multinazionale dell'oro nero, a cominciare dai Consigli regionali che ora si sono fatti promotori del referendum. Voterò Sì, ma con la convinzione che il referendum non basterà a fermare coloro che vogliono trasformare alcune regioni dello Stivale, ad iniziare dalla “mia” Basilicata, in hub petroliferi. Votero Sì, anche se ritengo che sia stato un errore non valutare il contesto che ci porterà al voto, il non considerare, cioè, che siamo in regime di “democrazia reale” (parafrasando l’espressione “socialismo reale”).
In un dossier pubblicato nell’anno 2009, noi Radicali proponevamo una riflessione proprio sul furto della scheda referendaria, sottolineando che «per quasi un quarto di secolo, gli italiani sono stati privati di due dei tre principali strumenti istituzionali che la Costituzione aveva previsto per l’esercizio della sovranità popolare». Tanto la scheda referendaria, quanto quella per le elezioni politiche regionali, sono state sottratte al popolo sovrano fino al 1970! Sottratte alla vita democratica della Repubblica, che democratica non è per chiunque sia convinto che il settantennio partitocratico di metamorfosi del male abbia prodotto «una lunga e continuata strage di leggi, di diritto, di principi costituzionali, di norme e di regole che avrebbero dovuto governare la convivenza civile della democrazia italiana».
In un Paese in cui la Costituzione scritta è stata tradita un minuto dopo la sua approvazione e sostituita dalla Costituzione materiale, l'utilizzo della scheda referendaria è stato dapprima negato per oltre vent'anni – grazie alla mancata approvazione della legge attuativa, avvenuta solo il 25 maggio 1970 – e poi reso impraticabile da un ceto politico che, con la sola eccezione dei Radicali e di pochissimi altri, ha nella quasi totalità dei casi visto l'istituto referendario come una iattura da scongiurare ad ogni costo e costi quel che costi.
Nel corso degli anni, gioverà ricordarlo, milioni di firme sono finite al macero a causa di discutibilissime decisioni della Corte costituzionale che ha tradito – ed è tutto dire – il dettato costituzionale.
In questo nostro Paese, soffocato da un deficit di Stato di diritto, a memoria non si ricorda una campagna referendaria, dico una, in cui sia stato consentito un reale e democratico confronto. Sono state addirittura convocate negli anni ‘90 consultazioni referendarie zavorrate dalla presenza di morti e fantasmi nelle liste. Questo per non dire dei ripetuti tradimenti della volontà popolare: vedi, per esempio i “referendum Tortora” o il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti.
A quante persone sarà realmente consentito, il 17 aprile, di sapere quali sono le ragioni del Sì e del No e qual è la posta in palio? Temo, ahinoi, a non molte.
Lo ripeto: la strategia referendaria in questa situazione è stata da un lato un azzardo e dall'altro assolutamente inadeguata a contrastare gli interessi di chi sta mettendo a repentaglio già da tempo, preziose risorse, quali l'acqua dolce, per poter estrarre un pugno di barili di petrolio. Ciononostante per le ragioni che ho sinteticamente illustrato, occorre fare il possibile e l'impossibile per evitare che non si raggiunga il quorum o, peggio, che vincano i no.
Io il 17 aprile non andrò al mare e voterò Sì. Nel frattempo proseguo la mia lotta per evitare che altre centinaia di chilometri quadrati di sottosuolo lucano, italico e meridionale, finiscano in pasto a chi ci sta vendendo un futuro che non c'è.
Maurizio Bolognetti è segretario Radicali lucani, giornalista, autore di “Le mani nel petrolio” (Reality Book, 2015)
17 aprile: cosa si vota
Il prossimo 17 aprile si voterà su questo quesito referendario: «Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?». Il referendum, pertanto, riguarda solo la durata delle trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa e non le attività petrolifere sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia dalla costa (22,2 chilometri).
Se vincerà il Sì, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del Codice dell’ambiente, il quale prevede che le trivellazioni continuino fino ad esaurimento del giacimento. La vittoria del Sì bloccherà tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana, quando scadranno i contratti. Tra gli altri saranno interessati dalla misura: il giacimento Guendalina (Eni) nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il giacimento Vega (Edison) davanti a Ragusa, in Sicilia. Non saranno interessate dal referendum tutte le 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre petrolio o metano oltre le 12 miglia.
* Immagine di tsuda, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
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