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L’Europa delle crisi

L’Europa delle crisi

Tratto da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

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INTRODUZIONE

L’anno 2015 è stato segnato, da un lato, dall’incapacità dell’Unione Europea (UE) di uscire dalla crisi scoppiata nel settore finanziario nel 2007-2008 e propagatasi alle finanze pubbliche nel 2009-2010, dall’altro lato dal drastico aumento del numero di profughi e sfollati a causa delle guerre e degli attacchi terroristici, in molti casi provocati dalle politiche distruttive della stessa UE e dei suoi Stati membri.

Lo scenario di perdurante bassa crescita in molti Paesi, di stagnazione in altri, di recessione in altri ancora, ha portato non solo a un rallentamento generale, ma anche ad accentuare le divisioni, sia tra gli Stati membri sia tra le diverse aree geografiche dell’Unione. Tali divergenze si riflettono negli indicatori socioeconomici dell’area, nonché, a livello politico, nel processo democratico, dato che alcuni Paesi tendono ad acquisire un ruolo egemonico nella formulazione delle politiche comunitarie, mentre la posizione di particolari gruppi di interesse, soprattutto quelli legati al capitale finanziario, diventa dominante in tutta l’Unione.

Dal momento che questi gruppi di interesse e le élite politiche a essi connesse non solo non sono stati in grado di fornire risposte efficaci alla crisi, ma ne hanno addirittura aggravato gli effetti su ampie fasce della popolazione, non potrà che emergerne instabilità politica e sociale. Ciò vale in particolare se si prende in considerazione l’esperienza delle trattative del governo greco guidato da Syriza con i Paesi partner e creditori dell’Unione nella prima metà del 2015, durante la quale si è manifestata chiaramente la deriva antidemocratica delle istituzioni europee.

In termini di sviluppo economico, allo shock iniziale della fine degli anni 2000 ha fatto seguito una breve e contenuta ripresa economica, ben presto rivelatasi effimera, con la congiuntura presto tornata, per il complesso della UE, su valori negativi o stazionari. Le medie, tuttavia, nascondono forti e crescenti divergenze all’interno della UE. (…).

Come prevedibile, le differenze nei trend di crescita all’interno della UE si riflettono sui tassi di disoccupazione – persistentemente alti – e, fatto ancora più preoccupante, sui tassi di disoccupazione di lungo periodo, che rendono sempre più difficile trovare un impiego per un gran numero di disoccupati, aumentando così il rischio che essi scivolino nella povertà e nella deprivazione materiale. A ciò si aggiunge una mancanza di opportunità di impiego nel settore pubblico, accentuata ulteriormente dai tagli alla spesa pubblica.

Così la disoccupazione ha raggiunto livelli drammatici in alcuni Paesi, quali la Grecia (25% nel 2015) e la Spagna (22% nel 2015), mentre solo in un ristretto numero di Paesi è ben al di sotto del livello medio del 9.3% (UE) e dell’11% (Eurozona). (…). Il processo di convergenza dei Paesi che hanno aderito alla UE dal 2004 in poi – i Paesi dell’Europa centrale e orientale – si è arrestato o invertito. Lo stesso vale per i Paesi dell’Europa meridionale, quali la Grecia, il Portogallo e la Spagna, che fanno parte della UE dalla metà degli anni ‘80. (…). Al contrario, il tenore di vita di pochi Paesi, tra cui la Germania, è nettamente migliorato, così da fare emergere crescenti divergenze all’interno dell’Unione.

Gli sviluppi economici e sociali sopra evidenziati si riflettono nel processo politico interno alla UE, egemonizzato dalle classi dirigenti della Germania e di alcuni Paesi suoi alleati, principalmente dell’Europa settentrionale. Questo processo è fondato sull’austerità, dogma insindacabile, i cui effetti deleteri sull’economia e sulla società sono ignorati.

Le trattative tra il governo di sinistra guidato da Syriza, formatosi in seguito alle elezioni di gennaio 2015, e i creditori della Grecia mostrano chiaramente la segretezza e le distorsioni sulle quali poggia l’attuale politica UE. La Banca Centrale Europea si è rivelata tutt’altro che indipendente, esercitando pressione sul governo greco anche attraverso restrizioni all’erogazione di liquidità, mentre l’Eurogruppo – organismo “ufficialmente riconosciuto come non ufficiale” secondo il Protocollo 14 del Trattato UE – ha prodotto dichiarazioni sempre più offensive nei confronti dei negoziatori greci. Dopo sei mesi di intense trattative, il governo greco ha dovuto capitolare e accettare le onerose condizioni di un altro accordo, subordinato ad un’ancora maggiore austerità e ad ulteriori misure di liberalizzazione. Come nel caso dei due accordi precedenti, più del 90% del nuovo prestito (86 miliardi di euro) sarà destinato al settore finanziario, ovvero alle banche greche e ai creditori del Paese.

L’esperienza greca ha smascherato i collegamenti tra politica ed economia all’interno della UE, ossia lo squilibrio di potere tra le classi dirigenti e la società nel suo complesso. Questa situazione solleva tra l’altro seri problemi dal punto di vista costituzionale, nello specifico la questione della tendenza delle istituzioni UE a limitare le competenze dei governi democraticamente eletti, rafforzando invece le regole tecnocratiche imposte da organi decisionali antidemocratici. (…).

Il deficit democratico insito nella costruzione UE è stato amplificato dalla crisi e dal modo in cui le classi dirigenti hanno risposto ad essa. Affinché proposte innovative e ambiziose possano concretizzarsi, è indispensabile riequilibrare i poteri mediante il rafforzamento dei processi democratici. È in virtù di tale premessa che questo Memorandum del Gruppo EuroMemo esamina in maniera critica gli sviluppi delle politiche economiche e sociali all’interno della UE nell’ultimo anno e sottopone le proprie alternative al dibattito del mondo progressista e degli attori sociali. (…).

LA SFIDA DEMOCRATICA

(…). La spinta a costituzionalizzare le dottrine economiche neoliberali e a “blindare” le politiche di austerità è segno di una profonda paura della democrazia da parte delle classi dirigenti dell’Unione Europea. Se avessero successo i tentativi di muoversi in questa direzione, allora il processo elettorale e l’alternanza al governo dei diversi partiti perderebbero gran parte del loro significato.

I gruppi privilegiati, che hanno beneficiato enormemente dalle crescenti diseguaglianze e dall’aumentato peso di profitti e rendite nella distribuzione del reddito, possono avere validi motivi per temere pressioni democratiche. Ma per la grande maggioranza dei cittadini la democrazia può costituire non solo un valore politico primario in sé, ma anche una forza economica positiva.

È chiaro almeno dai tempi di Keynes che l’incertezza globale può paralizzare gli investimenti privati e indurre i possessori di ricchezza ad adottare posizioni difensive basate sulla ricerca di liquidità piuttosto che sullo sviluppo economico. I potenziali investitori devono far fronte non solo agli specifici rischi associati ai loro progetti, ma anche al rischio di instabilità generale, che vanificherebbe i loro tentativi di calcolare i potenziali rischi e profitti dell’investimento.

Questo tipo di incertezza è accentuata in periodi di rapido mutamento strutturale. Oggi, profonde trasformazioni geopolitiche, un rapido progresso tecnologico, pericoli ecologici e molte altre forze rendono sempre più difficile il tentativo di valutare le prospettive di investimento.

Un forte consenso democratico, che definisca priorità chiare di sviluppo economico e sociale (...), può essere uno strumento potente per ridurre l’incertezza sistemica e, quindi, per promuovere gli investimenti privati. Ad esempio, nell’Europa del dopoguerra una forte determinazione politica a perseguire riforme sociali e a migliorare la situazione dei lavoratori contribuì a stabilizzare le aspettative e a stimolare gli investimenti, in risposta a crescenti consumi di massa e a migliori standard educativi.

In tal senso servono investimenti pubblici, che evidenzino l’impegno politico nei confronti di priorità pubbliche ben definite e che diano slancio, nella giusta direzione, all’economia. Piuttosto che escludere gli investimenti privati, questo tipo di impegno pubblico può stimolarli, modellando le aspettative del settore privato e riducendo i rischi.

Esempi di queste priorità potrebbero essere l’obiettivo di transizione a un’economia a basse emissioni di carbonio, o quello della convergenza economica degli Stati membri a basso reddito verso il livello dei Paesi più economicamente avanzati. Nel primo caso, una forte guida politica incoraggerebbe le imprese a investire in processi produttivi e prodotti puliti; nel secondo, genererebbe fiducia sulle prospettive di crescita dei mercati, in relazione alle prospettive di aumento dei redditi nei Paesi interessati.

Specularmente, questi stessi due esempi evidenziano anche i costi dei processi antidemocratici che attualmente vincolano il processo decisionale. Priva di legittimità, in posizione difensiva e incapace di mobilitare risorse per tali priorità, la leadership UE è essa stessa responsabile del crollo degli investimenti e della minaccia crescente di stagnazione di lungo periodo. (…).

LA SFIDA DEL TTIP (...)

Gli sviluppi recenti: proteste in aumento e proposte di riforma

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership) non è solo un accordo di libero scambio (FTA, Free Trade Agreement), così come inizialmente presentato dalla Commissione Europea. Considerato un dettagliato accordo commerciale di terza generazione, addirittura una NATO economica, il TTIP tocca aspetti quali le scelte sociali, gli stili di vita e le preferenze collettive. Gli obiettivi primari sono la rimozione delle barriere non-tariffarie e l’istituzione di un meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e stati (ISDS, Investor State Dispute Settlement), un regime di regole sugli investimenti internazionali al servizio degli interessi privati.

L’ampia portata del TTIP è la causa principale delle tensioni emerse, che concernono la sfera delle modalità di gestione dell’economia (conflitti normativi), laddove le controversie originate dai tradizionali accordi di libero scambio hanno prevalentemente riguardato la distribuzione di costi e benefici tra settori economici (conflitti redistributivi).

I cittadini europei hanno reagito all’iniziativa con un certo ritardo. Non essendo stato organizzato nessun dibattito pubblico sui problemi, il contenuto o le implicazioni del trattato, la popolazione europea è stata colta di sorpresa. Ciò non ha impedito ai movimenti di opposizione di guadagnare forza gradualmente. (…). Un vasto spettro di forze sociali, tra le quali sindacati, ONG e associazioni dei consumatori, ha dichiarato la propria ostilità al trattato. Un numero crescente di autorità locali si è dichiarata “fuori dal TTIP” e a settembre 2015 il 54% della popolazione francese vive in tali zone.

Le autorità europee e gli Stati membri sembrano essere stati presi alla sprovvista dalla crescita dell’opposizione al trattato. Gli Stati sono divisi sul meccanismo di risoluzione delle controversie ISDS, e le relative negoziazioni sono state sospese nel gennaio 2014. Tuttavia, gli Stati Uniti sono fermi nella pretesa che l’ISDS debba essere incluso in ogni futuro accordo. Pur riconoscendo il profondo scetticismo dei cittadini europei, la Commissione si rifiuta di abbandonare tale iniziativa. Interpellato al riguardo, il Parlamento Europeo ha dichiarato il proprio sostegno al TTIP in una risoluzione, pur non vincolante, approvata nel luglio 2015.

La diffusa opposizione al TTIP sta spingendo la Commissione a modificare la propria strategia comunicativa. La nuova politica commerciale europea, delineata nel 2015 dalla Commissione nel documento “Commercio per tutti: verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” si dichiara più trasparente ed in linea con i valori europei, rispettosa del suo modello sociale e regolativo. Ciononostante, in un contesto di globalizzazione competitiva – il principio promosso dal Trattato trans-pacifico (TPP), il trattato gemello del TTIP sottoscritto ad ottobre 2015 fra gli Stati Uniti e altri Paesi del Pacifico – viene riaffermata una strategia commerciale di completa liberalizzazione, con i principali Paesi asiatici come obiettivi primari. (…).

La Commissione sta proponendo una riforma dell’ISDS, che sostituirebbe ai tribunali privati ad-hoc fin qui ventilati dal TTIP una corte di arbitrato permanente, che includerebbe anche una sede d’appello, nominata sulla base di una lista di candidati selezionati dagli Stati Uniti e dalla UE. Se tale proposta rappresenta il riconoscimento di alcuni dei principali difetti del meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dal TTIP, essa tuttavia non affronta i problemi essenziali dell’ISDS: la possibilità per le società private di citare in giudizio i governi e, nel fare ciò, sferrare un attacco alle regole di protezione dell’interesse pubblico decise democraticamente. (…).

Le conseguenze geopolitiche e il potenziale disfacimento dell’integrazione europea

Il progetto TTIP è il risultato di due sviluppi principali. In primo luogo, è il risultato di una massiccia politica di liberalizzazione commerciale a livello bi e plurilaterale intrapresa sotto la spinta delle multinazionali ed iniziata dopo il fallimento delle negoziazioni multilaterali di Doha, promosse dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO). (…).

In secondo luogo, la crisi europea sta intensificando la tendenza all’apertura dei mercati. I governi europei guardano alle esportazioni ed all’espansione del libero commercio come soluzioni, senza tenere conto del fatto che le ragioni principali della crisi stanno nei difetti strutturali delle istituzioni economiche europee e nella debolezza della domanda interna a causa delle politiche restrittive adottate nell’area euro.

Nelle intenzioni, il TTIP dovrebbe stimolare la crescita dell’economia europea, incrementare la competitività delle imprese ed istituzionalizzare il dominio degli standard commerciali di Europa e Stati Uniti sui BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), in particolar modo sulla Cina. Tuttavia, se implementato, il trattato rischia di essere un fallimento su tutti i fronti. Stando agli studi condotti dalla Commissione per valutarne l’impatto, gli effetti sulla crescita economica sarebbero insignificanti e forse anche negativi. Il processo di liberalizzazione competitiva è destinato a beneficiare più le multinazionali statunitensi, che godono di una forte specializzazione e del supporto di una singola potenza, che le imprese di una Europa divisa, in crisi ed in cerca di una via d’uscita. Infine, lungi dall’ottenere un adattamento della Cina agli standard occidentali, il TTIP potrebbe provocare la formazione di aree di commercio ostili, che potrebbero minare la stessa globalizzazione a guida americana. (…).

Per quanto riguarda le conseguenze del TTIP sull’integrazione europea, questo potrebbe essere il colpo finale. L’unificazione dei mercati (Mercato Comune e Mercato Unico) e l’Unione Monetaria rimangono i due punti cardine del processo di costruzione europea. Con il TTIP, il mercato singolo europeo sarebbe diluito con il grande mercato transatlantico, il che ne è proprio l’obiettivo chiave. Nel mentre, l’ISDS e il processo di convergenza nella regolamentazione ridurrebbero ulteriormente il potere dei singoli Stati nazionali europei, che sono stati i protagonisti del processo di integrazione europea.

Il restringimento della portata di regolamenti chiave e la riduzione dei loro enormi benefici

Gli accordi internazionali sul commercio hanno sempre più spesso identificato la regolamentazione nazionale come una “barriera al commercio”. Analisi economiche standard sull’effetto degli accordi, inclusi gli studi ufficiali per il TTIP e il CETA (il Comprehensive Trade and Economic Agreement negoziato fra Europa e Canada), considerano la regolamentazione solamente in termini di costo per le imprese, e le differenze normative fra i vari Paesi come costi aggiuntivi. I benefici della regolamentazione non vengono considerati nei calcoli, né vengono annoverati fra i criteri per orientare le politiche commerciali.

Eppure questi benefici sono enormi, sia per la società che per l’economia, ad esempio in aree come la finanza, il cambiamento climatico, l’inquinamento, i rifiuti tossici, la qualità del cibo, la sanità pubblica, le condizioni lavorative, l’innovazione orientata a prodotti più puliti e sicuri. Non a caso, molte imprese ne sono esse stesse beneficiarie. (…).

La cooperazione in materia tra Europa e Stati Uniti è iniziata negli ultimi anni ’90 e l’Europa ha finito per far proprie molte caratteristiche del sistema americano. (…). Il programma REFIT (Regulatory Fitness and Performance, nel quadro del Better Regulation Package), volto alla valutazione della regolamentazione, si concentra prevalentemente sui costi e ha già portato alla rinuncia di molte proposte di regolamentazione comunitaria, tra le quali quelle relative all’introduzione di uno standard europeo per i congedi di maternità, all’accesso alla giustizia in materia ambientale, alla protezione del suolo e alla supervisione dei medicinali. Allarmati da tali effetti, nel giugno 2015 molti gruppi della società civile hanno costituito un organismo di monitoraggio per una migliore regolamentazione (Better Regulation Watchdog).

L’obiettivo dichiarato dal TTIP è il raggiungimento di una “compatibilità normativa” tra Europa e Stati Uniti, in modo da stimolare il commercio e gli investimenti. In particolare, ciò comporterebbe il reciproco riconoscimento della regolamentazione, considerata come equivalente, in vari settori. (…). La Commissione ha in passato dimostrato la sua disponibilità a cambiare radicalmente alcune proposte dopo averne discusso con le autorità commerciali americane; buona parte del lavoro in tal senso viene fatto a livelli di gruppi di lavoro, suddivisi per settore, dominati dalle imprese, senza nessun richiamo alla trasparenza. (…).

In una recente dichiarazione, le più importanti ONG ambientaliste hanno definito il primo anno della nuova Commissione come “un anno sprecato per la protezione dell’ambiente”, concludendo che “stiamo assistendo, nel suo complesso, al perseguimento di una deregolamentazione sempre più pericolosa da parte della Commissione”.

(…). Nel settore del commercio di servizi e degli investimenti esteri, negli ultimi anni le negoziazioni bilaterali su TTIP e CETA, così come quelle plurilaterali, in sede WTO, sull’Accordo sugli scambi di servizi (TISA), sono state condotte con l’obiettivo di restringere le regole sul commercio e di incrementare i diritti degli investitori. (…).

L’imposizione di una liberalizzazione tramite blocchi e forzature è appositamente pensata per rendere impossibile un cambiamento di rotta per qualsiasi governo futuro, qualunque sia il suo mandato elettorale, anche nel caso in cui una privatizzazione si riveli un completo fallimento. In tal senso, impedirebbe definitivamente i numerosi processi di ripubblicizzazione in corso a livello municipale in settori quali l’acqua, i trasporti e l’energia elettrica, in Europa e altrove.

Un importante nuovo sviluppo in tal senso è l’utilizzo per la prima volta da parte della UE di una “negative list” in sede di CETA e TTIP, ad indicare che tutti i servizi non esplicitamente esclusi sono liberalizzati. Ciò è particolarmente pericoloso, dato che ogni futuro nuovo servizio rientrerà automaticamente nel novero di quelli liberalizzati. Gli stessi governi hanno una grande difficoltà nel comprendere la portata dei loro impegni. Lo stesso meccanismo di ISDS è particolarmente pericoloso per i servizi pubblici e le privatizzazioni, dato che i governi, inclusi quelli locali, potrebbero essere citati in giudizio nel caso di modifiche alla regolamentazione che impattino sui profitti degli investitori esteri; peraltro, nessun servizio è escluso dalla competenza dell’ISDS.

Le alternative: un’agenda commerciale europea incentrata su democrazia e cooperazione internazionale e su genuine pratiche regolatorie

Le prospettive che si aprono col TTIP sono divenute sempre più chiare col passare del tempo. A fronte dei minimi vantaggi economici che si produrrebbero anche nello scenario più ottimista del rapporto ufficiale – l’equivalente, per l’Europa, di una tazza di caffè alla settimana pro capite – il TTIP comporterebbe un importante e permanente indebolimento del controllo democratico sulla regolamentazione in ambiti fondamentali della società e dell’ambiente. Per questo le negoziazioni TTIP dovrebbero essere interrotte e dovrebbe essere intrapreso un ripensamento profondo della politica commerciale europea. Il CETA, andando anche oltre il TTIP per alcuni aspetti (...), non dovrebbe essere ratificato da governi e parlamenti.

Un approccio alternativo di politica commerciale dovrebbe essere basato su principi come i seguenti, che permetterebbero un cambio di rotta, contribuendo positivamente al modello sociale europeo e ad un’organizzazione dell’economia internazionale basata sul mutuo rispetto e sulla cooperazione (...).

• Garantire la piena trasparenza dei processi negoziali e della relativa documentazione.

• Attivare regolari e aperte consultazioni con i parlamenti nazionali ed europeo nel corso delle negoziazioni, stimolando la partecipazione pubblica sulle questioni più importanti.

• Salvaguardare la possibilità per gli organi politici di regolamentare nell’interesse pubblico.

• Adottare un approccio che prenda in considerazione: (i) le preferenze collettive dei cittadini in merito alla protezione dei servizi pubblici dagli accordi commerciali; (ii) le lezioni impartite da una crisi finanziaria globale associata a processi di spinta deregolamentazione; (iii) le priorità di sviluppo dei Paesi coinvolti, in particolare i Paesi meno avanzati, inclusa la sovranità alimentare; (iv) le preferenze sulle direzioni di sviluppo a livello locale.

• Adottare clausole vincolanti circa il riconoscimento e la garanzia dei diritti umani essenziali, a partire dal rispetto degli standard di base dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dal diritto a un impiego soddisfacente, dai diritti delle donne e dagli standard ambientali internazionali. I servizi pubblici dovrebbero essere completamente esclusi dagli accordi sul commercio e sugli investimenti, attraverso una loro definizione univoca e comprensiva. È necessario inoltre rispettare lo spazio politico degli organi democratici, dal livello municipale fino a quello nazionale, garantendo loro il diritto di decidere del loro sviluppo. Ciò sta diventando sempre più importante con il trascorrere della crisi. (…).

* Bansky in Boston. Immagine di Chris Devers, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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